13/06/2012
Un gruppo di sfollati in fuga dagli scontri avvenuti nella zona di Kabindi, Congo orientale (Foto: Reuters).
Scontri a fuoco, violenze, decine di migliaia di profughi che fuggono. La situazione si sta rapidamente deteriorando nel Kivu settentrionale, l’area Nord orientale della Repubblica democratica del Congo, al confine con Uganda e Ruanda.
C’è chi ormai lancia l’allarme sul rischio che l’Est Congo scivoli presto nella guerra aperta. E si profila una nuova emergenza umanitaria, come accadde nel 2008, quando la città di Goma, capoluogo regionale, si trovò assediata dalle milizie ribelli.
Una situazione confusa, nella quale pare che tutti combattano contro tutti. Al crescendo di scontri – che si susseguono intensi da oltre tre mesi – fra l’esercito regolare e il gruppo armato del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), si aggiungono i combattimenti tra le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr, un’aggregazione ribelle nata fra i fuoriusciti ruandesi all’epoca del genocidio, nel 1994) e le milizie dei guerrieri tradizionali Mayi Mayi, ma anche quelli provocati da un nuovo gruppo armato formatosi di recente e costituito da militari disertori che si fa chiamare “Movimento 23 marzo” (M23), che a sua volta combatte con le truppe regolari congolesi.
Nelle ultime settimane, gli scontri tra l’esercito nazionale e i ribelli dell’M23 si sono concentrati su tre colline – Mbuzi, Chanzu e Runyonyi – nel territorio di Rutshuru ((a ridosso del parco dei gorilla di montagna dei Virunga). Da qui sta fuggendo ora la maggior parte dei civili che si rifugia nelle vicine Uganda e Ruanda.
A pagare il prezzo della confusa e incontrollabile guerra civile sono ovviamente i civili. Nei ultimi giorni è stato segnalato un centinaio di vittime in diversi villaggi nei territori di Masisi e Walikale. Altrettanti morti ci sarebbero stati nella zona di Kitchanga, sempre nel territorio del Masisi, dove sono stati segnalati anche una cinquantina di feriti diversi casi di stupro, oltre che saccheggi di diversi piccoli villaggi.
Soldati dell'esercito regolare congolese durante una recente operazione militare (Foto: Reters).
Quanto a sfollati e rifugiati, l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu (Hcr) parla di 80 mila persone in fuga.
Nella zona di Rutshuru, tra il 30 aprile e 19 maggio, la stessa Hcr ha
registrato oltre 40 mila sfollati, molti dei quali vivono in condizioni
precarie in scuole, chiese e siti improvvisati; in Ruanda, dal 27 aprile in poi, si sono registrati 8.200 rifugiati; mentre in Uganda l’agenzia Onu parla di 30 mila nuovi ingressi.
«Le dimensioni degli spostamenti della popolazione all’Est della Repubblica Democratica del Congo sono già catastrofiche», ha detto il commissario dell’Hcr Antonio Guterres. «La situazione di conflitto», ha aggiunto, «combinata a un accesso molto limitato degli operatori umanitari significa che diverse migliaia di persone si trovano senza protezione, né assistenza.
Da novembre 2011, circa 300.000 sfollati hanno abbandonato le loro case
e le loro attività. Si aggiungono a più di un milione di sfollati
precedenti in seguito alle diverse ondate di violenza. In totale, insomma, i profughi sono ormai oltre due milioni».
La nuova ondata di violenze sarebbe da attibuire da un lato al generale Bosco Ntaganda, legato al Cndp e già ricercato dalla Corte penale internazionale, dall’altro al nuovo gruppo armato, il Movimento 23 Marzo (M23), guidato dal colonnello Sultani Makenga (fuoriuscito dallo stesso Cndp).
Ma non solo. Secondo un rapporto confidenziale delle Nazioni Unite, l’M23 sarebbe appoggiato dal Ruanda, sia con uomini che con mezzi militari. Il quotidiano congolese Le Potentiel,
nei giorni scorsi, ha scritto che “ufficiali delle Fardc (truppe
governative), del Cndp e altri signori della guerra delle varie milizie
dettano legge, ciascuno a modo suo. Il Nord-Kivu è diventato una vera giungla”.
Secondo lo stesso giornale, le ragioni della nuova ondata di scontri sarebbero ancora una volta legate alle ricchezze naturali del sottosuolo congolese. Le Potentiel denuncia “l’occupazione di vaste aree della provincia da parte di popolazioni ruandesi che fanno affari nello sfruttamento e nella vendita del coltan”, in complicità con “organizzazioni locali e internazionali”.
Luciano Scalettari e Alberto Picci