Chi dà asilo ai rifugiati?

Il sistema italiano impedisce, di fatto, l'integrazione socioeconomica dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale. Uno studio della Caritas

Insediamenti spontanei... o forzati?

19/06/2012

La mappa geografica dei richiedenti e dei titolari di protezione internazionale in Italia non è uniforme: sempre l’Istat rileva che il 16% ha avuto il rilascio nel Lazio (13,9% solo a Roma), il 14,1% in Lombardia (di cui “appena” il 5,5% a Milano) e il 5,7% in Toscana (di cui il 2,8% a Firenze). I dati però non raccontano in modo dettagliato e preciso la verità sulla presenza nei territori: trattandosi di persone particolarmente “mobili”, il luogo di rilascio dell’attestato e quello di residenza spesso non coincidono. Di sicuro, Sicilia, Puglia e Calabria, epicentri degli sbarchi dei barconi della speranza, risultano essere prevalentemente territori di passaggio.

Di fronte alle ondate di richieste coincise in parte con la primavera araba e la crisi di buona parte del Nord Africa, il nostro sistema di accoglienza delle richieste non si è rivelato all’altezza: intanto i posti disponibili sono palesemente insufficienti; a questo si aggiunga un’incapacità cronica, rispetto alla domanda, aggravata dal taglio progressivo delle risorse in questa direzione a realizzare percorsi mirati che favoriscano un maggiore e miglior grado di integrazione. Una situazione critica dunque, che investe anche i più fortunati, cioè coloro ai quali vengono riconosciuti i diritti e gli status che vantano: l’ospitalità in luoghi pubblici o privati non basta a soddisfare il bisogno reale di queste persone, perché l’obiettivo di percorsi di questo tipo dovrebbe essere anche un accompagnamento all’autonomia che oggi, quanto meno, latita. Senza un lavoro, senza conoscere l’italiano, e senza la prospettiva di poter avere una casa propria da cui ricominciare è complicato poter parlare di integrazione.


Un gatto che si morde la coda: senza un lavoro non si guadagna, senza soldi non si può comprare una casa o dare stabilità al proprio futuro, neanche quello più vicino. Da qui, appunto, la nascita degli “insediamenti spontanei” e di occupazioni abusive di stabili vuoti da parte di richiedenti e di titolari di protezione internazionale. Ma le istituzioni italiane cosa possono fare? Le priorità sono il superamento della frammentazione e della sovrapposizione di funzioni e competenze, la mancanza di percorsi certi e di metodologie condivise di integrazione e di inserimento socio-lavorativo. Lo studio ha affrontato con particolare cura le condizioni di vita e le problematiche delle persone titolari e richiedenti la protezione internazionale che attualmente vivono tra Roma, Milano e Firenze. 

“Gli insediamenti spontanei – si legge nel rapporto - sono entità abitative, non integrate nei contesti territoriali in cui si trovano e con scarse relazioni con la rete istituzionale dei servizi relativi all’alloggio, alla salute e alla sicurezza, al lavoro e alla formazione. Le uniche relazioni con il territorio e le istituzioni avvengono attraverso alcune organizzazioni del terzo settore che svolgono, oltre a una funzione di “contenimento”, attività di informazione e di soddisfacimento (parziale) dei bisogni primari e attività di mediazione con le istituzioni”. Morale, in tutti gli insediamenti oggetto dello studio sono state riscontrate condizioni abitative abbondantemente al di sotto di ogni standard minimo accettabile: negativi, dunque, i giudizi su igiene, salute e sicurezza.

Alberto Picci
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