Sos Europe: la tragedia dei popoli in fuga

Un rapporto di Amnesty International mette in guardia i governi del nostro Continente dei pericoli che si corrono a negare l’ospitalità

Si fa presto a dire libico

18/06/2012

Cominciamo con una precisazione: la maggior parte di coloro che partono dalla Libia con destinazione Italia non sono cittadini libici. Il paese africano, infatti, per la sua maggiore ricchezza, è meta per migranti dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia e dal Sudan. Sono proprio questi la maggioranza di coloro che, non avendo trovato ciò che speravano, decidono di lasciarsi alle spalle le coste africane. Poiché la Libia non riconosce il diritto di asilo, i migranti si appellano a un sistema di protezione internazionale perché altrimenti risultano semplicemente degli “irregolari”. Sotto la dittatura di Gheddafi, lo riportano le testimonianze che oggi cominciano a dare un quadro completo del clima che per anni si è respirato con il regime del Colonnello, parlano senza mezzi termini di abusi e violenza, con buona pace dei diritti umani, a danno degli irregolari che superavano il confine entrando in territorio libico. Difficoltà che ancora oggi, nonostante la morte di Gheddafi, non consentono all’Unhcr di raggiungere accordi per una maggior tutela e sicurezza dei migranti con le nuove autorità libiche. Se possibile, la situazione si è addirittura deteriorata: la mancanza di leggi chiare, il proliferare di armi nel Paese e un’ondata di razzismo e xenofobia in particolare verso coloro che provengono dall’Africa Sub-Saharian (accusati e torturati oggi per essere stati dei mercenari al soldo del Colonnello) ostacolano un processo di pacificazione e integrazione.  I media libici parlano di arresti indiscriminati quotidiani: stranieri reclusi senza possibilità di difendersi legalmente che subiscono violenze e umiliazioni. La testimonianza di uno dei detenuti riportata da Amnesty, oltre a evocare fantasmi comuni ad altre tragedie sfociate poi in veri e propri genocidi, vale più di mille parole: <Ero in casa con mia moglie e mia figlia. Ho sentito battere alla porta, poi l’hanno forzata e sono entrati al grido di “mercenari mercenari”. Mi hanno condannato per il colore della mia pelle. Hanno cominciato a percuotermi fuori da casa e hanno proseguito al campo sportivo dove mi hanno portato>. In quel luogo, secondo la ricostruzione che oggi è possibile fare, sono state torturate centinaia di persone poi imprigionate.

Alberto Picci
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