Don Sciortino

di Fabrizio Fantoni

Fabrizio Fantoni, 54 anni, sposato, tre figli. Psicologo psicoterapeuta, esperto di adolescenti.

 
14
ott

Quando imparare è difficile per un disturbo

In questi giorni compie un anno la legge n.170 sui disturbi specifici dell’apprendimento. Cioè quelle difficoltà che affliggono molte persone (una percentuale tra il 2,5 e il 3,5 della popolazione, secondo dati dell’Istituto Superiore di Sanità) le quali, pur avendo una normale intelligenza, non automatizzano alcuni processi neuropsicologici alla base del leggere, scrivere e far di conto. Per loro la lettura e la comprensione di ciò che si legge, oppure la corretta scrittura secondo le norme dell’ortografia, o l’acquisizione della matematica diventano compiti faticosi e spesso frustranti per gli scarsi risultati, malgrado l’impegno profuso.

La condizione di queste persone, se non riconosciuta, ha spesso importanti conseguenze sulla stima di sé, sulla preoccupazione di essere poco intelligenti o di essere fatalmente votati all’insuccesso scolastico. Chi è dislessico, disgrafico, disortografico o discalculico porta con sé, ben oltre la scuola, la percezione di un limite che, quando non viene opportunamente affrontato, si può trasformare in senso di colpa. E’ facile che un bambino o un ragazzo che va male a scuola venga accusato di essere indolente, poco impegnato, senza comprendere la reale natura delle sue difficoltà, e si porti dietro anche da adulto lo stigma : quello, come si diceva una volta, di essere “un asino”.

La legge 170 ci fa passare da un’epoca in cui l’intervento degli insegnanti era frutto di benevolenza ad un’altra in cui la loro mancanza può diventare illegalità. In cui la scuola che non segnala ai genitori le difficoltà dei bambini manca ad un obbligo fondamentale e sancito dalla legge. In cui i genitori, gli specialisti, i docenti hanno precisi doveri (ulteriormente precisati per la scuola dalle Linee guida emanate nello scorso luglio dal Ministero dell’Istruzione).

Questo discorso sembra, a prima vista, riguardare soprattutto i bambini della scuola primaria. Eppure sempre più spesso, nella pratica clinica, mi capita di incontrare ragazzi di scuola superiore la cui dislessia o discalculia non è stata riconosciuta in precedenza. Spesso per incuria o incompetenza della scuola. O perché i genitori hanno scelto di non accogliere le preoccupate segnalazioni degli insegnanti, per paura o per superficiale noncuranza.

Il prezzo è alto: adolescenti demotivati per lo studio, che fuggono dagli impegni scolastici e non ne tollerano le frustrazioni. Ragazzi inclini a sottovalutare le loro capacità, che compiono scelte orientative sbagliate. Ragazzi oppositivi, verso la scuola e la famiglia, perché le sentono alleate nell’imporre loro un cammino troppo faticoso. Ragazzi che rischiano di entrare con strumenti inefficaci in un mondo che richiede una preparazione intellettuale sempre più ricca, per affrontare la complessità della vita lavorativa e sociale.

Gli insegnanti e la famiglia devono affinare l’attenzione verso queste difficoltà, attraverso l’accertamento precoce, intervenendo con gli strumenti più efficaci per sostenere l’apprendimento. E anche tenendo in considerazione coloro che, più grandi, potrebbero essere portatori di questi disturbi: ancora oggi gli esperti ci ricordano che i ragazzi con diagnosi di dislessia presenti nelle scuole sono solo una parte delle persone affette da questo disturbo.

La diagnosi di queste situazioni richiede specialisti competenti: purtroppo le strutture pubbliche di servizi per l’età evolutiva, spesso oberate da richieste (non solo per i disturbi dell’apprendimento) e in sofferenza per carenze di personale, non sempre sono in grado di rispondere alla crescente  domanda di diagnosi. Occorre un affiancamento tra il pubblico e il privato che, con il medesimo rigore diagnostico (formalizzato da documenti importanti, tra cui una Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità del dicembre 2010), possano offrire un adeguato supporto ai ragazzi e ai genitori. Le varie regioni stanno regolando questa materia, con tempi e modi differenti. Il web offre anche ai genitori costanti riferimenti in merito. In particolare, mi sembra utile segnalare il sito dell’Associazione Italiana Dislessia (www.aiditalia.org), sempre aggiornato sulle novità e le iniziative in merito ai disturbi specifici dell’apprendimento su tutto il territorio nazionale e nelle diverse sezioni diffuse sul territorio.   

Pubblicato il 14 ottobre 2011 - Commenti (0)
06
ott

La morte di Steve Jobs

Poche ore fa, si è diffusa contemporaneamente in tutto il mondo la notizia della morte di Steve Jobs, creatore di Apple. Uomo geniale, coraggioso, sognatore, intraprendente, inflessibile : così ci viene detto sul web in tutte le lingue.

Malgrado i tempi di crisi, di scoraggiamento, di disilluso e crudo realismo, abbiamo bisogno di miti che ci ricordino dove l’uomo può giungere. Ci piace pensare che in una sola persona si concentrino capacità, carattere, volontà, che gli permettano di lasciare nel mondo un’impronta più profonda del nostro essere ‘a immagine e somiglianza’ di Qualcuno Altro.

Non si è mai da soli nel realizzare qualcosa di bello e importante, e anche Jobs avrà avuto i suoi collaboratori con i quali condividere sogni e ansie. Con i quali, prima ancora, imparare a condividere, anche affrontando i conflitti. Penso che anche lui abbia dovuto apprenderlo col tempo, forse all’indomani della sua estromissione, nel 1985, dall’azienda che aveva contribuito a fondare, e alla cui guida sarebbe tornato undici anni dopo.

Si possono apprezzare queste figure, senza cadere nell’idealizzazione o nella commozione effimera che accompagna i grandi eventi mediatici, per quello che hanno fatto e per quello che hanno detto. Quando, nel giugno 2005, Jobs, già malato di tumore al pancreas, fu chiamato a parlare ai neolaureati dell’Università di Stanford, lui, che aveva lasciato gli studi accademici dopo solo 6 mesi, perché costavano troppo per la sua famiglia e non gli davano abbastanza, fece un discorso (che si può trovare facilmente sul web) alto e stimolante. Per noi adulti, e anche per i nostri adolescenti, che a volte ci sembrano così legati ad una quotidianità di scarso respiro.

In quel discorso, classicamente articolato in tre parti, parlò delle sue origini di bambino dato in adozione prima di nascere dai suoi genitori, due studenti (un’americana e uno studente straniero, siriano). Fu così accolto da una famiglia di origine armena, con la promessa che, una volta cresciuto, lo avrebbero mandato all’università. Parlò di sé come di un ragazzo alla ricerca, appassionato di calligrafia: un ragazzo che pieno di paura decideva comunque di seguire la sua curiosità, pagando anche con una scelta di precarietà. Bisogna tollerare queste incertezze, perché da giovani non si sa come andrà. Quale disegno uscirà “unendo i puntini”, lo sapremo solo dopo. Se avremo fede.

La seconda parte è dedicata all’amore e alla perdita. L’insuccesso è parte della vita, perché consente di essere ancora debuttanti, e di ritrovare l’amore per ciò che si è scelto di fare.

Ma è la terza parte quella più intensa e commossa. Là dove parla della morte. Dove, in modo molto pragmatico, Jobs diceva:

“Per gli ultimi 33 anni, mi sono guardato allo specchio ogni mattina e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, farei quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta è stata “No” per troppi giorni di fila, sapevo che dovevo cambiare qualcosa”.
Il pensiero della morte come strumento per compiere le grandi scelte. Per distinguere ciò che è accidentale da ciò che è autenticamente importante. Parole non nuove, certo, ma testimoniate da una persona che ci raccontava il dramma di una diagnosi infausta, che rendeva presente e vicina la morte. Ma che la percepiva come un formidabile agente di cambiamento e di rinnovamento. Un invito forte a non sprecare e a non disperdere la vita.

Una versione laica e tutta immanente di ciò che chi ha una fede religiosa sente, pur nella paura e nel dubbio che appartengono ad ogni essere umano. La morte è una risorsa per i viventi. E non è l’ultima parola, ma siamo chiamati a vivere anche dopo la fine della vita biologica, se sappiamo alzare lo sguardo, se sappiamo amare,  se teniamo viva in noi una fede. 

Pubblicato il 06 ottobre 2011 - Commenti (1)
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