09/05/2013
Proviamo ad abbandonare la stanchezza e il disincanto. Tentiamo, facendo i conti con la sfiducia, a non fare il conto degli anni, delle generazioni che invano hanno lottato, delle vite che sono mancate. Ignoriamo tutto questo, e facciamo un “esercizio di storia”: mettiamoci di fronte a un ragazzo di 18 anni per spiegargli che un giorno di 35 anni fa, il 9 maggio 1978, due fatti furono incisi sulla pelle di questo Paese. Due morti. Quella di un politico che si chiamava Aldo Moro, e quella di un giovane coraggioso, che in Sicilia sfotteva i mafiosi del suo paese, Giuseppe Impastato, da Cinisi.
Il filo rosso che li lega - pur nella distanza geografica e di eco mediatica di allora – è che entrambi erano uomini in guerra. Caduti di terrorismo e di mafia. Al nostro ragazzo, a questo punto, occorrerà spiegare cos’era il terrorismo, visto che non c’è più, lo abbiamo sconfitto tutti insieme. E chiarirgli perché, invece, la mafia c’è ancora.
Noi non gli diremmo che lo Stato non ha potuto. Né che la mafia –
come disse un ministro della Repubblica qualche tempo fa – è per il Sud
un costo d’impresa “con cui fare i conti”.Consapevoli della gravità
dell’affermazione, gli diremmo semplicemente
che lo Stato non ha voluto. Non tutto lo Stato, ovviamente. Il 9 maggio,
infatti, ricordiamo quel pezzo di Paese – giudici e giornalisti, forze
dell’ordine e imprenditori, commercianti e uomini della strada – che con
la mafia ha provato a ingaggiare battaglia. E ha perso perché non tutto lo Stato - quello di cui
indossavano la divisa e amministravano giustizia - ha voluto sconfiggere
la mafia. E li ha traditi, come si fa in una guerra civile sotterranea,
taciuta perché inconfessabile.
Leggete l’intervista a Giancarlo
Caselli in questo dossier, il magistrato che a Palermo arrestò Totò
Riina e mise sotto processo Giulio Andreotti. Vedrete - vedrà anche il
nostro diciottenne - che la lista degli strumenti per farcela c’è, è
chiara da tempo. Ma non è condivisa da tutti. C’è un pezzo di questo
Paese che ha reticenza ad affrontare la corruzione, perché la zona
grigia gli fa comodo. Ad attaccare i patrimoni mafiosi perché con
quella gente ha fatto e farà affari. A riformare la legge sul voto di
scambio perché con il voto mafioso ha fatto e farà politica.
Caro
diciottenne, la verità è così semplice che quasi non la vediamo più.
Non abbiamo voluto battere la mafia. Non tutti. Non fino in fondo. E’
così chiaro che non ce lo diciamo neanche più. La verità, a volte, è
come una lama di luce. Abbaglia e ferisce gli occhi. E li costringe ad
abbassarli. E noi ti chiediamo perdono se, accecati, li abbiamo
abbassati anche noi.
Francesco Gaeta