11/04/2013
Mons. Giovanni Giudici, 73 anni, è vescovo di Pavia e presidente di Pax Christi
Come spiegò un anno fa Papa Benedetto XVI, la Pacem in terris fu in un certo senso il "testamento spirituale"di Giovanni XXIII. La portata straordinaria di questo documento è che a distanza di cinquant’anni – fu promulgata l’11 aprile 1963 – regge ancora il confronto con il mondo globalizzato di oggi. «La visione offerta da Papa Giovanni», ha affermato Benedetto XVI, «ha ancora molto da insegnare a noi che lottiamo per affrontare le nuove sfide in favore della pace e della giustizia nell'era post-Guerra Fredda e in mezzo al continuo proliferare degli armamenti».
Un’eredità impegnativa, dunque, in parte onorata e in parte tradita. «Sicuramente», afferma monsignor Giovanni Giudici, 73 anni, vescovo di Pavia e dal 2009 presidente di Pax Christi, «un punto di fermo da cui ripartire per il futuro».
Eccellenza, la Pacem in terris ha segnato un’epoca con le sue aperture profetiche. Cosa resta oggi, a mezzo secolo di distanza?
«Dal punto di vista ecclesiale è stato un punto alto, il culmine del magistero della Chiesa sul tema della pace perché non si limita a offrire semplicemente alcuni spunti di riflessione ma li incardina in una serie di richiami e di valori più ampi. C’è sia la riflessione che la proposta. Sul versante civile, la società internazionale "scoprì" questa forte presa di posizione della Chiesa che si inseriva in un panorama reso più fisso e impermeabile a ogni sollecitazione di pace dallo scontro tra Est e Ovest, tra mondo socialista e mondo liberista. È evidente che dal punto di vista geopolitico oggi il mondo è totalmente cambiato da allora e di conseguenza anche l’impatto che questo documento può avere nella nuova situazione internazionale».
Rivolgendosi esplicitamente e per la prima volta a tutti "gli uomini di buona volontà" è stato anche un punto di partenza per un discorso non più confessionale sulla pace. «Esatto, è l’altro aspetto importante di questo documento che ha richiamato l’attenzione di chi era ai margini o al di fuori della comunità ecclesiale. Ha fatto scoprire a tutti il patrimonio complessivo di insegnamenti e riflessioni che la Chiesa dall’Ottocento aveva sviluppato sul tema».
Il movimento pacifista dopo le mobilitazioni degli anni scorsi contro le guerre in Afghanistan e in Iraq oggi appare oggi un po’ in ritirata e chiuso in se stesso. È così? «Oggi viviamo una stagione in cui la violenza è diventata endemica, fa parte del panorama quotidiano delle nostre città. L’altro aspetto è che l’uso delle armi non riflette più la vecchia logica aggressori-aggrediti perché sempre più spesso si tratta di conflitti locali e azioni terroristiche condotte allo scopo di spaventare le popolazioni, accrescere la paura, togliere terreno a chi non la pensa come gli aggressori. Da questo punto di vista la situazione è diventata più intricata e difficile da valutare e, di conseguenza, è più difficile che gruppi di persone prendano posizione e si mobilitino, che è poi la stessa difficoltà vissuta dalle agenzie internazionali».
Chi sono oggi i nemici della pace?
«Sono tutti coloro che disprezzano la persona umana, in tutta la varietà dell’esperienza umana: dalla nascita allo sviluppo (pensiamo alla privazione della cultura e alla mancanza del lavoro) fino alla morte. Sono tutti coloro che accettano che nella nostra società ci siano ingiustizie e violenze più o meno occulte perché questo è un altro problema drammatico: l’insorgere di determinati conflitti è il punto d’arrivo di ingiustizie precedenti o di carenze culturali, ossia l’incapacità di vivere pacificamente tra diversi stili di vita o diverse etnie. I nemici della pace sono tutti coloro che non lavorano perché queste differenze e contrapposizioni siamo poco per volta limitate ed eliminate».
Oltre ai cinquant’anni della Pacem in terris in questo mese ricorre il ventesimo anniversario della morte di don Tonino Bello suo predecessore alla guida di Pax Christi. Cosa le suggerisce questa coincidenza?
«Uno degli inviti di mons. Bello, oggi più che mai attuale ed urgente, è l’invito a stare sulla frontiera. In questo momento è difficile identificare questa frontiera della pace e come la si possa costruire quotidianamente. Don Tonino ha cercato gli amici della pace ovunque li ha potuti trovare e in questo senso ha aperto strade e subito anche giudizi e critiche. Il secondo aspetto è l’attenzione che egli aveva per l’ambiente e il creato: la battaglia contro le armi che condusse in Puglia aveva come obiettivo, tra gli altri, anche quello della salvaguardia della terra degli ulivi delle messi. Fu un approccio innovativo da non disperdere, a maggior ragione oggi che c’è una maggiore sensibilità su questo tema incoraggiata anche dai recenti messaggi di papa Francesco».
Sulla scia dell’enciclica, quali sono le sfide per il futuro?
«Ribadire la centralità della persona inviolabile nei suoi diritti. Confrontando la società civile di cinquant’anni fa con quella attuale è chiaro che oggi l’opinione pubblica è maggiormente informata e capace di mobilitarsi per i temi della pace. Soprattutto per merito dei media, in particolare i social network, che svolgono un ruolo importantissimo».
Antonio Sanfrancesco
a cura di Alberto Chiara e Antonio Sanfrancesco