Il denaro non deve governare

Duro intervento di papa Francesco contro l'attuale sistema economico che crea povertà e cerca solo il profitto: «Occorre una riforma etica della finanza»

Denaro, finanza e sviluppo secondo il cardinale Bergoglio

16/05/2013
Papa Francesco aveva già parlato contro la corruzione quand'era arcivescovo di Buenos Aires
Papa Francesco aveva già parlato contro la corruzione quand'era arcivescovo di Buenos Aires

«La concezione magica dello Stato, la dilapidazione del denaro del popolo, il liberalismo estremo mediante la tirannia del mercato, l’evasione fiscale, la mancanza di rispetto della legge tanto nella sua osservanza quanto nel modo di dettarla e applicarla, la perdita del senso del lavoro». E soprattutto «una corruzione generalizzata che mina la coesione della nazione e ci toglie prestigio davanti al mondo. Questa è la diagnosi». Nel libro intervista di Gianni Valente (Francesco, un papa dalla fine del mondo, Emi) il futuro papa Jorge Mario Bergoglio elenca i mali morali che hanno portato alla bancarotta dell’Argentina, la cui fase parossistica si verificò soprattutto tra il 1999 e finì il 2002 con il ritorno alla crescita del Pil.

Bergoglio adoperò l’immagine dei genitori delle Villas Miseria che di notte attendevano che i figli dormissero per piangere sulle proprie sciagure. Avvenne nei giorni della bancarotta. Perché il default dello Stato argentino rappresentò uno dei momenti peggiori della sua storia. Le sue onde sismiche temporali di quel terremoto finanziario risalgono a epicentri storici molto più antichi, dalle dittature militari ai debolissimi governi democratici, vere e proprie Repubbliche di Weimer sudamericane, a cominciare da quello del presidente Raùl Alfonsin. Le politiche dittatoriali o fragili e corrotte portarono alla crescita del debito pubblico, accumulato soprattutto dopo la guerra delle Falkland. Furono questi i prodromi di una crisi economica devastante. Quando il governo si rivelò incapace di remunerare il debito, l’inflazione si impennò e andò fuori controllo, raggiungendo il tasso mensile del 200 per cento, fino al 5 mila per cento del luglio 1989. In molte città del grande Paese scoppiarono numerose rivolte popolari.

Nel 1989 il liberista filo americano Carlos Menem, succeduto ad Alfonsin, dichiarò guerra  all’inflazione e stabilizzò la moneta nazionale agganciando l’austral, la moneta che aveva sostituito il peso al dollaro, con un cambio fisso. Tutto ciò ebbe effetti positivi per gli argentini, che poterono di nuovo viaggiare all’estero, acquistare beni d’importazione e chiedere crediti in dollari a tassi agevolati.
Ma la montagna del debito pubblico continuava a incombere. Solo i prestiti concessi dal Fondo Monetario Internazionale impediva che esplodesse. Nel 1999, il neo eletto presidente Fernando de la Rúa (liberista come Menem e accusato di aver venduto per quattro soldi le imprese agli americani) prese in mano un Paese dove la disoccupazione era ormai a livelli critici e gli effetti negativi del tasso di cambio fisso erano ben evidenti. L’Argentina entrò in una recessione che divenne ben presto stagnazione. Al posto del peso, si utilizzavano valute complementari; la più forte di esse era il Patacón, emesso dalla provincia di Buenos Aires.
La fuga di capitali aumentò. Nel 2001 la gente iniziò a temere il peggio e a ritirare grosse somme di denaro dai propri conti correnti convertendo pesos in dollari e mandandoli all'estero. Il governo adottò una serie di misure (note come corralito) che congelarono effettivamente tutti i conti bancari per dodici mesi, permettendo unicamente prelievi di piccole somme di denaro.
Il corralito esasperò il popolo argentino che si riversò nelle strade di Buenos Aires. Si svilupparono proteste popolari, come il cacerolazo, che consistevano nel percuotere rumorosamente pentole e padelle. Queste proteste andarono avanti fino al 2002 e finirono per diventare “espropri proletari”. Gli scontri fra i locali e la polizia divennero una consuetudine, così come gli incendi appiccati nelle strade di Buenos Aires, messa a ferro e fuoco. De la Rúa abbandonò la Casa Rosada in elicottero il 21 dicembre 2001 portandosi dietro una sorta di “damnatio memoriae” per la sua inconsistenza e incapacità.
Durante l’ultima settimana del 2001, il governo ad interim guidato da Rodríguez Saá, di fronte all’impossibilità di ripagare il debito, completamente incapace di affrontare la crisi, dichiarò lo stato di default sulla maggior parte del debito pubblico. Al suo posto arrivò alla Casa Rosada Eduardo Duhalde, un senatore molto noto di Buenos Aires, che aveva la fama di risanatore negli incarichi che aveva ricoperto.
Duhalde lasciò fluttuare il cambio con il peso spingendo in su l’inflazione fino all’80 per cento. Molte imprese chiusero o fallirono, molti prodotti importati divennero praticamente inaccessibili ed i salari furono congelati. I conti correnti in dollari furono convertiti in pesos a meno della metà del loro valore. Fu quella l’epoca dei cartoneros, i raccoglitori di cartone che vagavano per le strade di Buenos Aires per raggranellare qualche peso. uno dei tanti metodi che si utilizzavano in Argentina per far fronte ad un tasso di disoccupazione che era salito fino al 25 per cento. Ma la cura da cavallo cominciò a funzionare.
Eduardo Duhalde, dopo essere riuscito a stabilizzare la situazione, chiamò il popolo alle urne, vinte da Néstor Kirchner, che continuò a tenere quello che era considerato l’artefice della ripresa,  Roberto Lavagna, il ministro dell'economia nominato da Duhalde. Il Paese cominciava a respirare.  Anche perché la prospettiva economica era del tutto differente da quella degli anni novanta; il peso debole aveva reso le esportazioni argentine economiche e competitive all'estero ed aveva scoraggiato le importazioni. Inoltre, l’alto prezzo della soia sui mercati internazionali causò un grande afflusso di valuta estera.
Il governo incoraggiò la produzione locale e prestiti accessibili per le imprese, organizzò un piano ambizioso per aumentare il gettito fiscale e destinò una grande quantità di finanziamenti ai servizi sociali controllando la spesa in altri campi. Il peso, intanto, si rivalutò lentamente e l’industria a poco a poco trovò nuovi spazi anche attraverso le cooperative dei lavoratori che erano stati licenziati.
L’Argentina riuscì a tornare alla crescita economica con grande forza; il Pil aumentò a ritmi superiori dell’8 per cento, fino a toccare il 15 per cento nel 2007. Ma rimase sul campo tanta miseria, e soprattutto una diseguaglianza di fondo nella distribuzione dei redditi: il 10 per cento più ricco della popolazione argentina dispone di un reddito 31 volte superiore a quello più povero. Il nuovo presidente Cristina Kirchner, che aveva preso il posto dello scomparso marito Nestor, candidandosi alla testa del partito peronista fondato dal marito, annunciò un piano di pagamento ai creditori, basato su forti sconti, molto criticato dal Fondo Monetario Internazionale. Poi annunciò che il suo Paese avrebbe saldato, come il Brasile, il debito con l’Fmi. Ma la terapia funzionò e l’Argentina si sentì in quegli anni fuori dall’incubo.

L’Argentina ripagò il debito con le riserve di valuta estera della banca centrale. Anche se il Fondo Monetario di madame Christine Lagarde continua ad accusarla di truccare i dati macroeconomici, come avvenne oltre dieci anni fa. Ma la pasionaria peronista amica di Fidel Castro e Chavez ha risposto dando degli usurai ai vertici del Fondo. In questi ultimi mesi però anche gli argentini cominciano a sentire puzza d’imbroglio. I rincari hanno ripreso a galoppare. La disoccupazione aumenta. E così da settembre sono tornati in piazza con pentole e cucchiai.

Francesco Anfossi

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