05/06/2010
Padre Claudio Monge durante una celebrazione.
Istanbul, 5 giugno 2010
Il grido di Giobbe, il giusto sofferente, rimane in queste ore
strozzato nelle nostre gole, poveri cristiani nella Terra santa di
Turchia. Ma è un grido che si unisce a quello di chi, in ogni angolo del
mondo, lamenta la morte di persone care. Vite violentemente strappate
con una brutalità volgare, che infanga la loro sacralità e quasi irride
il caro prezzo con il quale sono state riscattate nel sacrificio
pasquale. Il “Corpus Domini” continua ad essere spezzato anche in
terra di Turchia e l’amico vescovo Luigi, con questa sua dipartita, ci
inchioda ancora di più alle nostre responsabilità, al dovere di una
fedeltà, più che mai evangelica. A venti secoli
dalla nascita del cristianesimo e del suo più grande apostolo, Paolo di
Tarso, i cristiani di Turchia, un tempo l’Asia Minore; culla delle
prime comunità cristiane e della strutturazione teologico-dogmatica del
cristianesimo stesso, sono oggi la testimonianza vivente delle pesanti
conseguenze non solo dell'espansione islamica, ma anche delle divisioni
profonde di una comunità che il Cristo aveva sognato come l’espressione
dell’unità e dell’amore trinitario stesso. Queste divisioni,
accentuano un isolamento che svilisce, appunto, la forza di una
presenza, significativa soprattutto se comunitaria. Lo stesso
isolamento, favorisce anche chi esprime la sua ostilità ai testimoni del
vangelo, non tanto con le armi e le minacce ma con la strategia della
calunnia e dell’insinuazione volte a sporcarne la reputazione.
Dal 1915, con
dissoluzione dell’Impero ottomano e il processo di formazione dei nuovi
Stati nazionali si definisce anche un nuovo ordine geopolitico nel Medio
Oriente. Le comunità cristiane orientali si trovano inserite in due
dinamiche profondamente diverse. Se in Turchia il processo di
costituzione dello Stato nazionale porta all'esclusione, ahimé non
indolore, dei cristiani dal nuovo Stato, nell'area araba i cristiani
sono invece tra i protagonisti, dal punto di vista sia culturale sia
politico, della "nahda", il rinascimento o risveglio arabo.
Tornando al caso
turco, l'identificazione dell'idea di nazione con l'appartenenza
confessionale, come suggeriva il sistema del millet (comunità, nazioni), porta a
collegare l'identità turca esclusivamente al riferimento culturale
musulmano (anche se da un punto di vista politico il nuovo Stato
voluto da Atatürk si definisce laico), tanto più che le altre millet
confessionali sono ormai state fagocitate nei giochi della politica
espansionistica delle potenze europee, rispetto alla quale bisogna in
qualche modo difendersi per sopravvivere. I cristiani, pedine tradite di
un gioco terminato male, pagheranno un dazio carissimo a questa svolta
storica. Il risultato è statisticamente impressionante: secoli di storia multi-confessionale
spazzati in dieci anni, tra il 1914 e il 1924, data della proclamazione
della Repubblica turca.
Oggi, i cristiani in Turchia da un lato cercano una vera condizione di
cittadinanza nazionale e dunque d’uguaglianza di diritti, dall'altro
emigrano o progettano di farlo per cause molteplici sia d'ordine
socio-politico sia economico. L'articolo 24 della Costituzione del 7
novembre 1982 che sancisce la libertà di coscienza, di credo e di
convinzioni religiose, si pone su un piano individuale, ma non riguarda i
diritti della collettività delle comunità religiose. Per questi
ultimi, la base giuridica continua a essere il Trattato di Losanna
del 1923, fino ad oggi, sempre applicato in modo restrittivo alle sole
minoranze armeno-ortodossa, greco-ortodossa ed ebrea, minoranze
sottoposte per questo al controllo della Presidenza degli affari
religiosi (Diyanet). I cattolici latini sono stranieri senza
il minimo statuto e personalità giuridici, ciò rende impossibile la
proprietà degli immobili e la gestione delle strutture ecclesiastiche.
In assenza di qualsiasi tipo di sovvenzione statale bisogna cercare di
sopravvivere autonomamente e anche finanziariamente.
Tuttavia, i sei
anni donati alla chiesa di Turchia da monsignor Luigi Padovese, sono la
prova più trasparente che oggi, più che mai, vale la sfida di una
presenza in questa terra dalla storia cristiana così ricca. È una
presenza che può finalmente essere evangelica, nel senso di nascosta ai
più ma capace di condivisione. Dopo secoli di penetrazione cristiana nel
segno della logica coloniale delle capitolazioni (trattati
economici e politico-giuridici tra l’Impero ottomano e le potenze
europee che inaugurano la politica d’interesse sempre più invadente
utilizzando per i propri fini le comunità cristiane d’Oriente incitate a
rivendicare una maggiore autonomia rispetto al potere centrale
musulmano), abbiamo la grande chance di rompere definitivamente
con questo passato, liberi di incontrare uomini e donne in questo
crocevia di popoli e razze, senza dover fare scelte di campo,
privilegiando un gruppo piuttosto che un altro, lontani dalle sfere
d’influenza di ambasciate e consolati o lobby economiche.
Questo non significa rinunciare alla battaglia dei diritti:
invocati con pazienza ma anche con ferma determinazione, così come ha
sempre testimoniato monsignor Luigi. L’ultimo concreto lascito delle sue
battaglie era stata, proprio recentemente, il libero utilizzo della
chiesa/museo di S. Paolo a Tarso che, ai tempi dell’Anno consacrato
all’Apostolo delle genti, era stata solo provvisoriamente concessa.
Vittoria che
rimane, come lascito che incoraggia ed orienta il nostro vivere come
minoranza in contesto islamico animati della sola fedeltà alla
testimonianza debole di un Dio debole e solidale con l’uomo in un mondo
che sembra aver imparato a fare a meno di Lui. È una provocazione al
limite del blasfemo, ma si tratta di apprendere la fecondità della
kenosi,
della spogliazione... è proprio nella debolezza che noi diventiamo
più coscienti del fatto che Dio chiama al di là delle frontiere della
Chiesa e ci radichiamo ancora di più nella missione di accogliere e
condividere il dono di Dio in Gesù Cristo con e per la gente dei nostri
Paesi di accoglienza e di vita.
Padre Claudio Monge, responsabile del Centro di documentazione interreligiosa
dei domenicani di Istanbul, presidente dell’Unione religiosi di Turchia.
Dossier a cura di Alberto Chiara e di Pino Pignatta