27/05/2013
Il saggio del professor Marco Santagata.
Dedicato a tutti quelli che pensano che i critici e gli studiosi siano parrucconi fuori dal tempo. Marco Santagata, docente all’università di Pisa, non è di quelli e le sue parole lo provano, molto di più e molto meglio dello slogan con cui il suo editore ha lanciato la sua Guida all’Inferno: «Tutto quello che dovete sapere sull’inferno in attesa del nuovo libro di Dan Brown».
Professore, si aspettava che la sua Guida all’Inferno di Dante sarebbe stata lanciata così?
«Devo dire che non l’avrei mai immaginato, ma Dante ci ha abituato alle sorprese da quando è diventato un autore pop: direi che ci sta. Non avrei previsto Dan Brown, ma non ho dubbi sul fatto che sia una ricezione non canonica di Dante».
La Commedia, soprattutto l’Inferno, ha avuto una enorme fortuna postuma che potremmo definire esotica. Si pensi a Benigni, ma anche a Piumini e Altan che gli hanno rifatto il verso in terzine qualche anno fa. A che cosa si deve questo successo?
«A un accumularsi di fenomeni, ma è certo che neppure nel Trecento Dante è stato popolare come oggi. Anzi, è stato dimenticato per secoli e deve la fortuna della riscoperta alla cultura risorgimentale dell’Ottocento, al concetto del padre della Patria, delle radici, dell’identità. Oggi questo discorso non vale più, ma Dante è tuttora popolarissimo».
Saprebbe spiegarci il perché?
«Direi che lo debba al fatto di essere entrato gradualmente nel grande circuito della comunicazione. Il primo a rompere l’aura accademica e scolastica attorno a Dante forse è stato Sermonti, poi il colpo grosso l’ha fatto Benigni mobilitandogli attorno le folle. Ma sono tanti i fenomeni di contorno: persino Walt Dysney ha fatto un Topolino all’Inferno. Ma a decretarne la consacrazione è stato l’ingresso nel mondo della pubblicità. Si pensi allo spot recente di un rotolo di carta da cucina. La cosa curiosa di quella pubblicità è la scritta in calce. Vi si legge: “Firenze, 1308. Dante finisce la Divina Commedia”. Per chi abbia un minimo di cultura dantesca la scritta ha dell’incredibile: nel 1308 Dante non era a Firenze e ha finito la Commedia alla fine della vita, nel 1321. Sarebbe bastato un giro su google per risparmiarsi lo svarione. Questo dimostra che il Dante pop ha una vita indipendente rispetto al Dante degli studi e degli studiosi, pure lui fortunatissimo. Non basterebbero tre vite per leggere tutti gli studi che sono stati
prodotti su Dante ma i due mondi, quello pop dei media e quello degli
studiosi, procedono paralleli senza un ponte senza un ponte che li metta
in contatto».
Scrivendo la Guida all’Inferno ha pensato di gettare quel ponte?
«Sì, l’ho pensato proprio come ponte. Più che ai lettori di Dan Brown
pensavo agli stranieri che magari conoscono l’italiano e Dante, ma hanno
grande difficoltà ad accostarsi al testo, l’ho pensato come una specie
di surrogato. Ma ho l’impressione che in questo senso possa funzionare
anche presso un pubblico italiano. Oggi Dante viene veicolato soltanto
attraverso libri che hanno una struttura fissa: canto introdotto da un
cappello e note che spiegano il testo. Questa forma si rivolge in
maniera indistinta agli studenti, agli studiosi e a un pubblico
generico, come se le esigenze fossero le stesse: una formula di quel tipo
funziona per chi deve studiare, ma può respingere un lettore cuorioso
che studente non è più, perché fa pensare a un libro particolarmente
difficile e poi introduce l’idea sbagliata che la Commedia sia una
giustapposizione di episodi e non il racconto continuo che invece è».
Il personaggio principale di Dan Brown è un professore di Harvard. E’ un
fatto che Dante desti anche nella realtà un grande interesse accademico
all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Come è possibile visto che
riesce ormai ostico anche agli studenti italiani?
«Dante ha una lingua difficile, antica e desueta, ma noi da decenni
siamo abituati a leggere testi ostici: la sua difficoltà carica di
sottintesi è una modalità narrativa familiare ai lettori del 2013,
abituati a fruire testi letterari, filmici, ma penso anche a quelli che
circolano nelle clip, in cui viene inglobato il “non detto” e il “non
noto”. Direi che gli studenti contemporanei sono naturalmente attrezzati
a questo, magari anche più dei loro professori abituati a una scrittura
più classica. Quanto agli stranieri, possiamo rispondere con altri
esempi: Omero gode di analoga fortuna e non è che il mondo sia pieno di
grecisti, l’inglese è più conosciuto ma Shakespeare è notissimo anche in
contesti in cui l’inglese si parla poco. Di fronte a testi che sono
creatori di miti e che una volta creati hanno vita propria, lo strumento
linguistico non è più di ostacolo. Saper intepretare bisogni, paure,
sentimenti profondi, dando loro forma universale, è nello spirito dei
classici».
Dante è intriso di riferimenti culturali cristiani. E’ più difficile
leggerlo dove non ci sono?
«Io credo che di pari passo con la laicizzazione della società proceda
la laicizzazione di Dante. La tematica più propriamente religiosa di
Dante, che può risultare molto lontana dalla sensibilità di molti
lettori di oggi, diventa un tema tra i temi, non è più recepita come un
momento vitale nella costruzine del testo. Questa è sicuramente una
perdita rispetto alla ricchezza del testo, ma è una perdita che libera
Dante da una qualche ipoteca e fa venire in primo piano una fruizione
puramente estetica, con il risultato di allargare il campo a nuove
acquisizioni e punti di vista. E’ il destino dei grandi classici. Il
sistema di valori civili e religiosi di Virgilio a noi risce del tutto
estraneo, ma non ci è estraneo il discorso sull’uomo di Virgilio».
Chiudiamo il cerchio: abbiamo scherzato sul fatto che Dan Brown è
diventato il veicolo del suo libro. Visto che lo sta leggendo, ci dica
come un critico studioso di Dante si accosta a questa lettura?
«Ho letto giorni fa sul Sole24ore una stroncatura del libro di Dan
Brown: veniva trattato come un insieme di sciocchezze e banalità.
Ne sono rimasto non poco colpito. Non sto dicendo che il libro sia un
capolavoro, ma quella stroncatura è un bell’esempio di provincialismo
italiano, nel senso che Dan Brown e la cultura narrativa americana hanno
tutto quello che manca a noi: sanno raccontare come molti narratori
italiani, per una infinità di ragioni, con poche eccezioni, non sanno
fare. Putroppo anche i lettori italiani, abituati a una narrativa che
non è narrativa, da un lato guardano a questi prodotti con spocchiosità,
dall’altro lato però, se sono sinceri, anche con un po’ di invidia. Io
un po’ di invidia per queste persone che riescono a tenere la tensione
del lettore per centinaia di pagine sul nulla – perché è vero che il
libro di Dan Brown è costruito sul nulla – ce l’ho: è una dote e va
riconosciuta».
Elisa Chiari
a cura di Paolo Perazzolo