Venezia, il cinema italiano c'è

Da Olmi a Crialese, da Segre alla Comencini, da Pacinotti a Bruni, segnali di forte risveglio per il cinema italiano. L'impegno etico e morale scuote la Mostra.

09/09/2011
Donatella Finocchiaro in "Terraferma" di Emanuele Crialese.
Donatella Finocchiaro in "Terraferma" di Emanuele Crialese.

Buone notizie dalla Laguna per il cinema italiano. Sarà pure in perenne crisi finanziaria e in deficit di buone sale per una adeguata distribuzione dei nostri film, però la cinematografia tricolore è più viva che mai. Anzi, è una di quelle che ha lasciato maggiormente il segno nel pur ricco cartellone della 68° Mostra di Venezia.        

     A prescindere dal Palmarès che sabato notte verrà deciso dalla giuria presieduta dal cineasta statunitense Darren Aronofski (di cui fanno parte anche gli italiani Mario Martone, regista e Alba Rohrwacher, attrice), tra le pellicole in gara per il Leone d'oro che hanno maggiormente convinto c'è sicuramente Terraferma di Emanulele Crialese. Il regista romano, ma di origini siciliane, si è guadagnato dieci minuti di applausi convinti con questa luminosa e aspra storia fatta di immigrati clandestini e di pescatori, poveracci dalla pelle scura in cerca di un futuro migliore e poveracci nostrani che da quella vita su un'isola senza orizzonti vorrebbero fuggire. Immagini di grande impatto visivo e volti scolpiti nel sole, da quelli dei protagonisti Filippo Pucillo e Donatella Finocchiaro a quello bronzeo della giovane Timnit T., profuga realmente sopravvissuta due anni fa a un'odissea nelle acque di Lampedusa. Sarebbe davvero sorprendente se Crialese non tornasse a casa con qualche premio.       

     Meno accreditati alla vigilia, ma comunque capaci di far discutere critici e addetti ai lavori, gli altri nostri due titoli in gara. Contrastato per i suoi eccessi di sentimentalismo letterario Quando la notte di Cristina Comencini, eppure capace di raccontare sullo schermo qualcosa di cui raramente si ha il coraggio di parlare: il lato oscuro della maternità. Originale e curiosamente cinefilo L'ultimo terrestre, che il disegnatore Gian Alfonso Pacinotti ha ricavato da un racconto a fumetti neppure suo bensì del collega e amico Giacomo Monti: per dire, quando ci si innamora di una storia paradossale (lo sbarco di pacifici alieni in un'Italia disillusa e prostrata dalla crisi) che consente di gettare uno sguardo innocente e allo stesso tempo raggelante sul baratro sociale e di valori in cui stiamo quotidianamente sdrucciolando.       

La voragine per le fondamenta del nuovo Palazzo del Cinema.
La voragine per le fondamenta del nuovo Palazzo del Cinema.

      Il piacere dello spettatore

     Ci sono stati, poi, tanti altri piccoli segnali confortanti. Vero è che l'orrenda voragine scavata due anni fa per le fondamenta del nuovo Palazzo del cinema, che mai si farà, è ancora là nascosta in bella evidenza da cerate e teloni pubblicitari (testimonianza lampante della nostra incapacità a concludere il più simbolico dei progetti, intitolato ai 150 anni dell'unità d'Italia). Ma è pure vero che la Sala Grande, restaurata e tecnicamente aggiornata, ha offerto proiezioni finalmente di qualità.

     Se poi la Mostra, per attirare le Tv di tutto il mondo, ha ospitato un filmetto patinato e superficiale come W.E. (sulla travagliata storia di Wallis Simpson ed Edoardo VIII d'Inghilterra) pur di veder sfilare sul red carpet la regista superstar Madonna, la musica ha poi restituito al cinema il maltolto con Questa storia qua, documentario che doveva essere solo un omaggio a Vasco Rossi e che invece si è rivelato molto di più: il ritratto dal basso, fatto di foto, voci, filmini e testimonianze, di un'Italia cresciuta con sogni e valori negli anni del boom economico e che oggi non esiste più. C'è stato quindi l'annuncio dell'accordo da tre milioni di euro tra Telecom e Cinecittà, che consentirà di proseguire la preziosa opera di conservazione e digitalizzazione dell'immenso e prezioso patrimonio audiovisivo dell'Archivio Storico Luce.

     Saltando poi dalle grandi questioni al piacere dello spettatore (che resterebbe il fine primo della settima arte), il film che più ha divertito il pubblico è stato senz'altro l'italiano  Scialla! di Francesco Bruni, bravo sceneggiatore passato dietro la cinepresa per raccontare la storia di un padre colto e disilluso, conscio della paternità in extremis (il superbo Fabrizio Bentivoglio) e di un ragazzo brillante e ribelle che neppure sa di essere suo figlio (Filippo Scicchitano). Equivoci, situazioni, dialoghi ben ritagliati sul linguaggio simbolico dei ragazzi di oggi fanno di questa commedia, che non a caso ha vinto la sezione “Controcampo Italiano”, un vero gioiellino di arguzia.

Ermanno Olmi sul set di "Il villaggio di cartone".
Ermanno Olmi sul set di "Il villaggio di cartone".

      Immigrazione e accoglienza

      Altro importante segnale, lo sdoganamento di Venezia dall'annosa concorrenza con il Festival di Cannes mercè il premio “Robert Bresson” che l'Ente dello Spettacolo ha assegnato quest'anno a Luc e Jean-Pierre Dardenne, vincitori sulla Croisette di due Palme d'oro e di un'infinità di altri riconoscimenti: il presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni, monsignor Claudio Maria Celli, ha inteso con questo premio riconoscere ai fratelli registi belgi il valore estetico ed etico dei loro film e a Cannes il merito di averli scoperti e sostenuti in mezzo a tanto cinema commerciale.       

     Se poi quest'anno è emerso in modo prepotente sugli schermi della Mostra un tema forte come quello dell'immigrazione e dell'accoglienza, il merito è soprattutto delle pellicole italiane sparse nelle sezioni principali e in quelle parallele. Al film di Crialese ha fatto degna sponda, fuori concorso, Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi: sorta di parabola sulla disillusione di un vecchio prete, finito in disarmo così come la sua chiesa per mancanza di fedeli e restituito al valore di una  missione dall'arrivo tra quelle mura di un gruppo di immigrati clandestini, animati da sentimenti contrapposti.

     Non tutti, nella chiesa-casa di Olmi, la vedono allo stesso modo: c'è perfino un kamikaze che vuole saltare in aria per protesta. “Essere migranti non significa essere santi, debolezze e confusioni fanno parte dell'essere umano. La rabbia di chi non ha più nulla sta esplodendo. L'esercito degli emarginati s'ingrossa a vista e nessuno lo fermerà”, ha detto Olmi facendo eco alle dichiarazioni di Crialese. “La parola chiave per rispondere a tutto ciò è giustizia, intesa innanzi tutto come atto d'amore. Noi dobbiamo rinnovarci, aprirci all'altro. Cosa conta più dell'accoglienza? Vorrei suggerire ai cattolici di ricordarsi più spesso di essere anche cristiani”.       

     Messaggio forte che, senza neppure immaginare l'accostamento col maestro de L'albero degli zoccoli, il regista Francesco Patierno ha saputo declinare in tutt'altra maniera con Cose dell'altro mondo, in questi giorni nelle sale dopo l'anteprima veneziana. Al centro di questa commedia grottesca, un imprenditore leghista (ben incarnato da Diego Abatantuono) che ogni giorno tuona invettive contro negri e immigrati davanti alle telecamere di una Tv locale. Finché un bel mattino il suo paesotto e l'Italia intera si risvegliano senza più stranieri: tutti spariti. Naturalmente, saranno dolori. Storia paradossale, divertente e dai toni vagamente felliniani.       

   

Il regista Andrea Segre con l'attrice Zhao Tao.
Il regista Andrea Segre con l'attrice Zhao Tao.

      Due comunità in subbuglio

      Si appoggia invece più sul registro romantico, sebbene rude e senza scadere nel sentimentalismo, Io sono Li del regista Andrea Segre, presentato nella selezione delle Giornate degli Autori. Cuore della vicenda è Li, ragazza cinese che si arrabatta in un laboratorio tessile della periferia romana nella speranza di ottenere i documenti e far venire così in Italia suo figlio di otto anni. Trasferita improvvisamente a Chioggia, per lavorare come barista in un'osteria della laguna veneta, la giovane donna incontra il maturo Bepi, pescatore di origini slave soprannominato dagli amici “il poeta”. Tra i due non sarà passione ma intesa profonda, una fuga dalle reciproche solitudini, un dialogo silenzioso tra culture lontane ma non diverse. Un viaggio del cuore, una amicizia che non tarderà a mettere in subbuglio due comunità, quella cinese e quella chioggiotta. Perché nulla fa più paura, oggi come ieri, dell'incontro fra due diversità.

     Bravo Rade Sherbedgia, l'attore slavo più noto a livello internazionale, capace qui di dare spessore poetico al personaggio del maturo pescatore. Davvero toccante il modo in cui l'attrice cinese Zhao Tao tratteggia sentimenti e pulsioni della giovane Li. E bravissimo Segre che, senza rinnegare il suo sguardo di documentarista abituato a filmare solo la realtà, riesce a spingere lo spettatore ben oltre i limiti di ciò che vede.   Se il cinema italiano è anche questo, si può essere ottimisti sul suo futuro.

Maurizio Turrioni
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