26/05/2013
Oscar Isaac in una scena di "Inside Llewin Davis?" dei fratelli Coen.
I
fratelli Joel
e Ethan Coen
sono stati così tanto premiati a Cannes (addirittura scoperti dal
festival nel 1991 con la Palma d'Oro a Barton
Fink)
che immaginarli di nuovo nel Palmarès è una scommessa. Come
ignorare però la sommessa bellezza di Inside
Llewin Davis?
Noi
gli attribuiamo il Grand Prix, ovvero la medaglia d'argento del
festival.
L'anno
è il 1961, quando la rivolta giovanile, la beat-generation, la nuova
musica, il Village di New York dovevano ancora prendere forma. Tutto
è ancora in embrione, eppure la nuova vita già cova sotto la
cenere. La vecchia foto ritrae due giovani musicisti, due giovanotti
arruffati e infreddoliti. I Coen, lasciano perdere il ricciolino
sulla sinistra, che un giorno sarebbe poi diventato famoso in tutto
il globo col nome di Bob Dylan. Loro puntano la cinepresa sull'amico
accanto, un ragazzotto con la barba e il volto stropicciato dalla
vita: un sicuro perdente.
Nella realtà, quel
musicista che non ebbe mai neppure un briciolo del successo di Bob
Dylan si chiamava Dave Van Ronk. Per rispetto e senso di libertà
artistica, i Coen hanno cambiato il nome. Ma la storia e le
irripetibili atmosfere di quel tempo sono reali, addirittura
palpabili.
All'epoca,
un cantante folk come Llewyn non puntava ai soldi ma solo a esibirsi
davanti a un pubblico sempre più numeroso “rimanendo sé stesso”.
Mica facile, in una New York invernale dal clima glaciale e in un
Greenwich Village ancora non pronto a fare da culla al movimento
giovanile, alla contestazione, al ribaltamento dei valori
tradizionali. Llewyn si trascina nel gelo senza cappotto con borsone,
chitarra e perfino un gatto rosso sotto il braccio. Passa di locale
in locale senza aver successo e sopravvive per lo più grazie ai
pasti e all'occasionale ospitalità di amici, colleghi, colti
estimatori e perfino della sorella perbenista, che lo bolla come un
fallito. Gli restituiscono uno scatolone con le copie del suo LP
invenduto, Inside
Llewyn Davis.
La bella collega Jean lo strapazza perché è incinta e crede che il
colpevole sia lui. Fa l'autostop per recarsi a Chicago (per
l'ennesima inutile audizione) e si fa caricare da un grasso jazzista
eroinomane con tanto di autista: altra esperienza indimenticabile.
Del suo personalissimo girone dantesco, Llewyn non salta neppure una
tappa. Eppure, quando si ferma a cantare è folgorante. Solo, troppo
avanti rispetto ai tempi. E se il classico anti eroe dei fratelli
Coen a volte finisce per riscattarsi, Llewyn invece parte perdente e
arriva, a passo strascicato, esattamente allo stesso modo.
La
capacità dei Coen di far riassaporare allo spettatore gusti e
atmosfere di quell'epoca è stupefacente. Sembra di guardare dentro
un album ricordo, fatto di foto viventi, di quella che sarebbe
diventata la beat-generation. Nei panni del protagonista, Oscar Isaac
è bravissimo, anche e soprattutto quando si tratta di cantare. E il
contorno è fatto da attori coi fiocchi: Carey Mulligan (già a
Cannes per l'inaugurazione con Il
grande Gatsby)
è l'aggressiva Jean; Justin Timberlake (che finalmente recita) è
suo marito nonché cantante dall'immeritato successo; il grasso
jazzista non poteva essere che John Goodman mentre l'impresario che
prevede per Llewyn un cronico insuccesso è F. Murray Abraham.
Una
storia che potrebbe sembrare triste e che invece ti fa uscire dal
cinema di buon umore.
Perché i Coen narrano con levità le brutture umane, sanno rendere
attraente perfino la New York più sporca e gelida. E suscitano la
nostalgia di quelli che, comunque, erano tempi più umani.
Maurizio Turrioni