08/09/2012
Un'immagine di "Pietà" di Kim Ki-duc.
Un merito,
tuttavia, Malick lo ha avuto ed è stato quello di far emergere tra le righe del
festival un tema dominante. In tempi di crisi profonda, a tutte le latitudini
si fa sentire prepotente un bisogno d'amore, di valori che vadano oltre il
consumismo e il denaro. Una fame morale, un afflato di spiritualità che
attraversa tante pellicole che non potevano passare inosservate alla Mostra. In
senso positivo o negativo.
Tipico esempio da festival quello del film coreano Pietà.
Cineasta elegante non nuovo a immagini choc e a trame ingarbugliate, Kim
Ki-duc porta sullo schermo una feroce parabola di abiezione e redenzione.
Al centro della vicenda un bel ragazzone dall'insospettabile cinismo: vive tra
le catapecchie alla periferia di Seul, nuova capitale del consumismo
elettronico, facendo l'esattore per un invisibile strozzino. Se il poveraccio
di turno, rintanato nella sua bottega di artigiano, non ha di che pagare lui
gli mozza una mano, gli spranga una gamba, magari lo mutila semplicemente di un
dito: ciò che serve per poter incassare la polizza assicurativa che ha fatto
sottoscrivere a ciascun debitore come garanzia.
Un lavoretto niente male
finché, a scuoterlo dalla routine, arriva una donna ancora bella che, muta e
sottomessa, comincia a braccarlo... Per farla breve, dopo una serie di prove di
inenarrabile ripugnanza, il duro si ritroverà il cuore intenerito dalla
scoperta dall'amore materno, quello sempre agognato e che spiegherebbe la sua
turpitudine col dolore di un abbandono subito ancora in fasce. Peccato che,
provocata la crepa, la misteriosa donna la sfrutterà per affondarci dentro la
lama della vendetta.
Film a tratti irritante a tratti insostenibile, Pietà (grazie
anche a un furbo richiamo al celebre gruppo marmoreo di Michelangelo) è stato
capace di far gridare al miracolo il solito manipolo di critici festivalieri.
Maurizio Turrioni