Adozione: come è difficile andare a scuola!

Un'attenta terapia rivolta al bambino e ai genitori, ridona la giusta prospettiva per riconoscere le paure e potenziare l'affetto.

Senza soluzioni magiche

14/03/2011

«Dott.ssa come devo fare per risolvere il “problema dei compiti”? Sono i compiti che mi preoccupano, perché poi credo che crescendo diventerà più maturo e non farà più capricci e con il tempo tutto andrà meglio» (padre).

Non ci sono ricette già pronte da applicare più o meno automaticamente ma bisogna iniziare a considerare le difficoltà scolastiche di M. come la conseguenza di profonde difficoltà sul piano affettivo-relazionale e, purtroppo, non bastano solo i fattori maturazionali e il tempo a ristrutturare un’immagine negativa di sé e dell’altro, bensì una relazione sicura, stabile, duratura e significativa. Nel tentativo di smorzare la corazza protettiva del padre spiego che i compiti sono qualcosa di insopportabile e generatori di sofferenza in quanto nella mente del figlio sono associati a un evento fortemente traumatico: il compito di costruire il proprio “albero genealogico”, cioè di ricostruire l’abbandono prima e l’adozione poi. L’albero di M. è spoglio, non è ramificato, non ha una chioma fitta e rigogliosa perché mancano degli elementi che sono attribuibili da un lato a un’incapacità di M. di mentalizzare l’abbandono, e quindi l’adozione, e dall’altro a una difficoltà emotiva e comunicativa da parte dei genitori di condividere la sofferenza del figlio.

I genitori di M. sono talmente preoccupati dalle performance scolastiche negative del figlio, troppo giudicanti con sé stessi e severi nel valutare le proprie capacità genitoriali da perdere di vista l’immenso bisogno di M. di essere amato, non giudicato, rassicurato sul fatto che nessuno lo abbandonerà più. I genitori iniziano pian piano a dare un significato diverso alle problematiche di M., a dare meno importanza ai voti scolastici, a non rimproverarlo per la pessima grafia. La mamma, in particolar modo, si è impegnata a essere più comprensiva cercando di capire i bisogni di un figlio “reale”, non quelli del figlio desiderato e/o immaginato.

Questi “nuovi” atteggiamenti dei genitori aiutano M. ad avere fiducia in sé stesso, a sentirsi più sicuro nella relazione tanto da dire meno bugie, da non nascondere i compiti e mostrandosi più comunicativo. Inoltre la madre, smettendo di fare l’interrogatorio e trasformando le sue domande in semplici e comprensibili esplicitazioni, inizia a svolgere, quella che Kohut (1978) chiama funzione di rispecchiamento del mondo interiore del bambino. La mamma incomincia, quindi, a dare un nome alle emozioni che M. non riconosce come tali e a dare un significato ai suoi comportamenti. Per esempio: «Mi dispiace, ti ho spostato i soldatini, solo ora capisco che probabilmente hai avuto una brutta mattinata a scuola e quindi ti sei arrabbiato perché rientrando a casa non hai trovato le tue cose al loro posto ». La mamma così facendo, regala a M. un “nuovo specchio” in cui M. può vedere un ragazzino amato, un ragazzino che ha tante doti che non era riuscito ancora a sviluppare incoraggiandolo ad avere fiducia nel suo potenziale inespresso.

La mamma infatti, un giorno, dice a M.: « Anche se la tua grafia non è bellissima, ci sono tante cose in cui sei bravo, come, per esempio, riprodurre tutto ciò che vedi con modellini in carta. Questa non è una cosa semplice, da tutti». Queste “nuove” modalità comunicative e relazionali dei genitori, apprese con grande impegno in un lungo lavoro terapeutico, possono aiutare M. a sviluppare un sé degno di amore e una maggiore sicurezza nella relazione con i genitori, che hanno imparato a mostrarsi come fonte di conforto nei momenti di paura o di ansia, un porto sicuro dove potersi rifugiare. Al termine del percorso terapeutico, il padre è riuscito a comunicare quanto amore possano provare dei genitori verso un figlio venuto da lontano, tanto da cambiare sé stessi: «Noi non abbiamo cambiato il suo nome anche se nell’istituto dove l’abbiamo adottato ce lo avevano proposto. Non l’abbiamo fatto perché noi lo accettiamo così come è in tutto e per tutto!».

Dalila Esposito
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