01/12/2011
Marco è un bambino di
10 anni. I genitori lavorano
insieme nella scuola di
tennis che il padre ha avviato,
dopo aver rinunciato
alla sua carriera di tennista.
È una “impresa familiare”
in cui lui è allenatore,
lei gestisce la contabilità.
La madre ha però
allentato la sua presenza
nella scuola da quando è
nata una seconda figlia,
Mara, che oggi ha due anni,
verso la quale Marco è
tollerante e protettivo,
sebbene lei sia un tipetto
invadente, incontenibile.
Portatore di un talento
innato, Marco è allievo
nella scuola del padre da
sempre, con risultati eccellenti.
Ma alle soglie di
una partita in cui è destinato
a essere “campioncino”,
si paralizza sul campo;
tremando, lascia cadere
la racchetta.
I genitori,
preoccupati per il suo cedimento,
si dichiarano
rassegnati a rinunciare, e
a lasciare Marco libero di
decidere se abbandonare
o meno l’agonismo, se
non fosse che Marco cede
anche nell’apprendimento
scolastico ed è un bambino
timido, vittima delle
angherie bullistiche dei
compagni, a cui non sa rispondere.
La timidezza di
Marco e il suo lamento di
vittima appaiono “caratteri”
tollerabili finché non
c’è il crollo, un’interruzione
che “impressiona” e
mobilita una richiesta di
aiuto la quale fa spazio alla
possibilità di dire qualcosa
dei “fatti”.
Il fatto è che, da quando
è nata Mara, il padre si
è spostato a dormire nella
stanza del figlio, e la madre,
invece, dorme nel lettone
con la bambina, che
dorme solo se abbracciata
a lei. Ma ci vorrà del tempo,
prima che i genitori lo
rivelino, come se svelassero
inconsapevolmente il
segreto vergognoso
dell’“uso” dei figli come
oggetto consolatorio, nella
confusione dei bisogni
tra adulto e bambino.
Padre
e madre dividono sé
stessi e i figli: Marco è ceduto
al padre, Mara è la
compagna della madre.
Realizzano così una configurazione
aggregata per
similarità di genere e per
indifferenziazione delle
generazioni.
Cosa mi “impressiona” di Marco, nell’interezza del nostro primo incontro? Marco, timidamente, sussurra sottovoce l’elenco delle angherie bullistiche. Mi devo avvicinare per capire ciò che dice, ma mentre mi accosto fisicamente “mi sposta” mentalmente: prende un foglio e disegna un grande pesce, gonfio ma piatto e solitario, da cui escono bollicine-fumetto che restano vuote. È immobile e senz’acqua attorno. Cosa mettiamo nei fumetti? Niente, il pesce è muto. Mi impressiona la capacità creativa con cui sa comunicarmi l’immaginario di un mondo diviso in due, in cui vedo una competenza a osservare come gli vanno le cose nella vita.
Da una parte, c’è il bullismo: la pretesa di superiorità e dominio con provocatoria arroganza e violenza, ma che contiene confusamente anche il bisogno di riconoscimento e affermazione del diritto alla vita. Dall’altra, c’è l’inermità, che non trova difese e protezione adeguate, ma che è anche attratta dal rifugio sicuro dell’immobile passività, per evitare dolorosi conflitti.
È una comunicazione da fare sottovoce, come capita a chi ha paura, perché sta “denunciando” un’organizzazione esterna, che è anche la propria interna. E questo avviene nell’incertezza tra tradimento e tentativo di salvezza, dimostrando che il cambiamento è sempre difficile da realizzare; avviene nel dubbio della slealtà verso un ideale che non si sa di chi sia.
Marco è “pesce fuor d’acqua” che non ha strumenti per fronteggiare ondate di sensazioni ed emozioni forti. Sensazioni da far tremare il corpo, sul campo da tennis, così come nel campo della vita. Senza un adeguato contenimento mentale, non trovano allenamento e capacità gestionale, cosicché restano zone mute, vuote di significato e conoscenza. E perciò devono essere totalmente espulse nel bullismo esterno.
Claudia Balottari