Figlio unico o unicità del figlio?

Ogni figlio è “unico”. Ovvero impegnato in una relazione specifica e irripetibile (e delicatissima) con i propri genitori, anche quando vi è la presenza di fratelli e sorelle.

Un posto per l’altro

01/12/2011

Una ricerca sociologica fatta in Spagna alcuni anni fa ha comparato i dati delle psicopatologie che colpiscono giovani appartenenti a famiglie tradizionali con quelle che si manifestano in giovani provenienti da famiglie atipiche, le “nuove famiglie”.
La conclusione, molto semplice, è che tra configurazione della famiglia e “rischio” di psicopatologia non c’è una significativa correlazione. Ciò che conta, invece, è la “qualità delle relazioni” che si stabilisce nel nucleo familiare.

È ciò che riscontro nella mia pratica quotidiana di psicoanalista, dove incontro pazienti di varia età portati da una sofferenza sempre “singolare”, ma accomunati da difficoltà relazionali e da sentimenti di povertà e minaccia alla propria esistenza. Sono portati, soprattutto, dalla mortificazione di sé e dal non-nato, affinché possano rivitalizzarsi e nascere nell’incontro.
Questa richiesta implicita di ricevere attenzione, da parte del paziente come dal figlio che nasce, rivendica la necessità di separatezza e asimmetria tra analista e paziente, così come tra genitore e bambino.

Ogni figlio è “unico”, e avvierà una relazione specifica con l’ambiente psicofisico che trova. E se vale il concetto di Winnicott in base a cui non esiste “bambino senza la madre”, i nuovi modelli che si sono aggiunti alle teorie psicoanalitiche classiche ci dicono che il neonato è dotato di una “competenza relazionale propria”, teso intenzionalmente alla ricerca di un contatto affettivo capace di restituire organizzazione e senso alle primitive percezioni sensoriali.

Il neonato è un vero e proprio partner attivo nelle interazioni con l’adulto: ha la capacità di iniziare l’interazione, di rispondere se è l’adulto a impegnarlo in un rapporto, ma ha anche la capacità di rifiutare l’interazione, evitandola, se è proposta in maniera non adeguata alle sue capacità e alle sue esigenze emozionali.

Il neonato nasce già socius alla ricerca di appartenenza affettivo-relazionale, dotato di una primaria potenzialità di incontrarsi con altri, di avere quelle relazioni che sole consentiranno al suo “Io” di crescere realmente.

La madre che prepara la culla si predispone come contenitore mentale per raccogliere i frutti delle esperienze relazionali che costruiranno insieme. Predisponendosi, mette nella culla anche quelli che Faimberg chiama “fantasmi nella nursery”: il Sé adulto, nel momento in cui fa un’esperienza genitoriale è guidato dall’esperienza del tipo di accudimento ricevuto che viene riattivato nelle relazioni con i propri figli.

La Fraiberg propone che queste storie di “fantasmi nella nursery” siano legate al destino particolare cui possono andare incontro gli affetti infantili: quando si ha un libero accesso alle sofferenze del passato si crea un potente deterrente contro il rischio di una ripetizione delle qualità genitoriali, mentre l’isolamento e la repressione di tali sentimenti aprirebbe la strada a “l’identificazione con l’aggressore”.

Sono stati compiuti molti studi sull’ordine di nascita e sulla posizione del figlio unico, che mettono in particolare evidenza lo stereotipo di “personalità narcisistica”, oscillante tra sicura affermazione di sé e passiva sottomissione.
Ma di quale narcisismo si tratta? Se vogliamo capire che posto può avere, o che posto verrà assegnato a un figlio, dobbiamo chiederci quale sia lo scenario (fantasmatico e reale) in cui nasce, se e come viene perseverato nel tempo, senza trasformazioni, nel “triangolo genitoriale” da cui ha origine. Quale fantasia di gravidanza e di parto ha la madre, come è compartecipata nella coppia? Quale rilevanza ha per la madre il sesso del figlio, incontrato nella realtà del suo corpo? Perché un figlio resta l’unico, e quando lo “sapranno”?

Come partner in un gioco teatrale, i genitori sogneranno quel posto e con i figli lo rappresenteranno nella realtà. E potranno rappresentarlo collusivamente e vischiosamente, oppure con la libertà di lasciarsi reciprocamente modificare, per far posto a nuove nascite di sé, lasciando entrare nuove funzioni, nuovi personaggi, nuove e complesse capacità di relazioni affettive ed emozionali. L’esperienza relazionale diventa intrapsichica e questa diventa relazionale, seppure sempre in modo oscillatorio, e con il contributo di tutto il gruppo. Dice un detto esquimese, che «l’insieme dei sogni in una notte nello stesso igloo è considerato come un solo discorso tenuto dalla collettività attraverso ciascuno dei suoi membri».

Claudia Balottari
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