01/12/2011
È un modello di divisione
che si ripete con la nascita
della sorella, esibendo
a Marco, osservatore
partecipe e non neutrale,
lo scenario di una maternità
dormiente in un’unità
chiusa, mentre Mara è
sveglia e “bulletto” invasore
spadroneggiante. E tuttavia
invasore tollerato
dal fratello, da bravo bambino
primogenito che cerca
di guadagnarsi una
quota di utile nell’impresa
familiare. E quale sarà
stata la sua com-partecipazione
a quell’esperienza?
Ma la sorella-bulletto è
anche potenziale alleato,
perché gli offre il rispecchiamento
di qualcosa
che resta muto dentro di
sé, cioè il bisogno di libertà
d’esplorazione, che
con Mara si manifesta come
occupazione di territori
altrui.
“Complice” identificato
con questo elemento-invasore, ambigua
istanza di libertà, Marco
fa un gesto di sfida e occupa
la mente dei genitori,
con l’effetto di una bomba
che scoppia. Non bisogna
sottovalutare, infatti,
la potenza distruttiva del
“cedimento”, che colpisce
l’impresa familiare
ma anche lui stesso.
L’interruzione rende visibile
uno stato di crisi,
che esplode in un momento
di passaggio avvertito
da Marco (che si prepara
alla partita cruciale
del cambiamento pubertario),
come impasse indecidibile.
Marco si ferma, ma
si fermeranno anche i
suoi genitori, e con il tempo,
sarà possibile portare
ordine nella confusione
dei ruoli e prestare attenzione
a una sofferenza depressiva,
luttuosa e silente,
e a un modello relazionale
improntato alla discontinuità,
con insufficiente
attenzione alle conseguenze
emotive degli
eventi e degli scambi.
La sfida si compie con
un atto dimissionario che
sospende il destino di
eroe salvatore nel “sogno
dell’igloo”: e richiama tutto
il familiare a una revisione.
È un richiamo a
un’originaria mancanza,
come il grido del neonato.
L’atto di Marco è
un’autospogliazione rivelatrice:
“il re è nudo”, è
un sé-pesce a rischio di
asfissia. Mette a nudo l’impronta di un accudimento
psicofisico che non ha
dato una sufficiente “base
narcisistica” del valore di
sé, nella sua totalità e
nell’unità di corpo e mente,
nei talenti innati e in
quelli da far nascere.
Bloccato
e impedito dall’assenza
di speranza nell’aiuto a
revisionare l’impronta di
base, il bisogno di nutrimento
relazionale si intride
di protesta espulsiva e
piena di odio, e si mostra
in modo disperato.
Bion ci avverte che
«sentimenti di odio sono
diretti verso tutte le emozioni
e contro la realtà
esterna che li provoca. Il
passo è breve, dall’odio
verso le emozioni,
all’odio verso la vita stessa
».
E lo mostra bene un
film di Suzanne Bier del
2010, In un mondo migliore.
Siamo richiamati, però,
anche a considerare la necessità
dell’odio, come rimarcato
da Winnicott:
«L’odio è necessario affinché
il soggetto sia separabile
dall’oggetto altro da
sé, distrutto in fantasia e
costituito all’esterno dal
soggetto».
Ma ci vuole
qualcuno che si accorga
della qualità vitale
dell’odio, che aiuti ad allenarlo
e fermi il circolo di
una restituzione non trasformata,
che fomenta la
rappresaglia.
E se Mara non fosse nata?
L’esperienza della nascita
è implicita nel proprio
esser nati e nell’accudimento
psicofisico originario.
Registrata in un
“luogo interno” a cui tornare
e da ricercare, dove
si incontra l’immaginario
che l’insieme delle esperienze
ha raccolto, dà forma
a una sorta di preconcezione
della nascita, che
riunisce vulnerabilità e responsabilità
genitoriale, il
patto fondamentale con
la vita.
Ancora un altro
film viene in mente qui,
American Life di Sam Mendes
(2009), che rappresenta
il viaggio di una coppia
in attesa di un figlio, alla
ricerca di un posto per la
loro nuova vita. Metafora
di separazioni e incontri,
il viaggio riporterà al posto
delle origini: luogo di
calma, ma non isolato, scenario
di una attesa di vita
sostenibile, con speranza
di orizzonti aperti al futuro.
Se vogliamo ricorrere
agli autori “specializzati”,
Bion parla di preconcezione7
dell’esistenza dei fratelli,
idea innata in attesa
di una sua realizzazione.
Claudia Balottari