01/10/2012
Il Decalogo è il modus essendi della
Trinità: Dio è amore! Il titolo generale
che farà da sfondo al Progetto e al racconto
di ogni singolo Comandamento,
infatti, è: “Quando l’Amore dà senso
alla tua vita...”. Accogliere le Dieci
Parole significa partecipare alla vita intima
di Dio; riscoprire che Dio è amore,
non per quello che comanda o fa,
ma per quello che è, per la Sua presenza
compassionevole nella storia.
Il progetto “Dieci Piazze per Dieci
Comandamenti” ha in sé il valore di
una sfida dinanzi ad alcune evidenze
che vorremmo provare a superare.
Sentiamo come un dovere non ignorarle
e provare a vincerle. Dobbiamo
vincere un falso laicismo, che vorrebbe
si “desse a Cesare quel che è di
Dio” e a Dio indifferenza e disprezzo.
Dobbiamo vincere un falso naturalismo,
che vorrebbe l’uomo rassegnato
dinanzi all’ineluttabile male che attanaglia
la storia. Dobbiamo vincere un
falso moralismo, che sta riducendo il
cristianesimo a una precettistica sterile
di regole, che non convincono più
nessuno della loro bontà e della loro
potenza. Dobbiamo vincere un falso
ritualismo, che vorrebbe nella ripetizione
stanca di formule liturgiche
l’espressione della nostra fede. Dobbiamo vincere un falso messianismo,
che riduce il cristianesimo a una fede
che si fa pensiero, cultura, giudizio
sulla realtà senza alcun impegno per
cambiarla. Proviamo, infine, a “spigolare”
inoltrandoci nei meandri dei
Dieci Comandamenti.
1 - Io sono il Signore Tuo Dio. La
crisi dell’uomo moderno è crisi di
Dio, eclissi di Dio, ignoranza di Dio,
avversione a Dio. La speranza degli
uomini è delusa perché riposta fuori
di Dio. L’uomo sottopone la propria
vita, il proprio futuro, tutto ciò che di
buono possiede ad altri “signori”.
Lungo sarebbe l’elenco di tutte le “false
signorie” proposte dallo spirito del
mondo opposto allo Spirito di Dio.
2 - Non avrai altro Dio all’infuori di
me. Gli idoli sembrano godere di ottima
salute, Dio sembrerebbe invece suscitare
minor fascino nell’uomo moderno.
Eppure si tratta di “idoli muti”, che
non possono salvare il cuore dell’uomo
nel suo più recondito bisogno
d’amare e di essere amato. Quanti scimmiottamenti,
quante contraffazioni del
vero volto di Dio! Si guerreggia nel nome
di Dio, ma Dio è uno. Se è “uno”
non si può essere in conflitto, in perenne
conflitto tra generazioni e popoli.
3 - Non nominare il nome di Dio invano.
In quanti modi si insulta Dio, si
bestemmia il suo nome, si altera la
sua vera essenza. È poi facile usare il
nome di Dio, piegandolo ai propri bisogni.
Quanti falsi profeti abusano degli
altri, specie dei “deboli” in nome
di Dio. Quanti credenti poi si “autoassolvono”
dando a Dio il nome “misericordia”
e dimenticando che il suo nome
è anche “verità” e “giustizia”.
4 - Ricordati di santificare le feste.
La festa, e dunque il riposo dal lavoro,
è lo spazio offerto all’intimità con
Dio. È tempo riservato alla riscoperta
di sé in rapporti di vera fraternità con
gli altri. Assistiamo allo snaturamento
di questa verità: la festa non alimenta
nell’uomo il bisogno di Dio, piuttosto
la dimenticanza, sempre più sinonimo
di consumismo, piacere, acquisizione
e godimento dei beni materiali.
5 - Onora il padre e la madre. I figli
nascono da un padre e da una madre,
non da donatori di sperma o da uteri
prestati all’insegna di una nuova etica
sociale. Quanti figli orfani di paternità
negate o rifiutate anche dalle stesse
legislazioni umane! Come potranno
dei figli onorare i loro padri e loro madri
se questi rimangono “anonimi”?
Chi onora il padre e la madre rispetta
la propria storia, le memorie familiari
che danno identità sociale.
6 - Non uccidere. Si può uccidere
in tanti modi, non solo con le armi:
uccidono anche la lingua, l’ignoranza,
il silenzio. Non uccidere è anche
difendere la vita. Sempre, non solo
quando si può o conviene. La vita: nel
suo iniziare, nel suo svolgersi, nel suo
finire. La vita non va mai mortificata.
Nel tempo della crisi non si possono
favorire nuovi assassini: i suicidi sono
spesso figli di una povertà provocata o
di un benessere sfrenato che poi d’improvviso
scompare.
7 - Non commettere atti impuri. Si
commettono atti impuri anche solo
per emulazione, per una cultura ossessiva
che fa della liberalizzazione del sesso
uno dei più grandi business commerciali,
proprio a partire dallo svilimento
della dignità dell’uomo e della donna.
Non è il rendere la prostituzione più
“decente” che la rende meno sfruttamento
del corpo, altrimenti prima o
poi anche la pedofilia sarà socialmente
compatibile con i bisogni della modernità.
È impuro non conservare l’unità
tra corpo e spirito, violentare lo spirito
in nome del benessere corporale.
8 - Non rubare. Il furto è un’intenzione
cattiva che è dentro di noi. Non
è poi solo il “non rubare all’uomo”,
ma anche il “non rubare l’uomo”,
cioè privarlo del suo tempo, della sua
dignità del suo futuro di giustizia e pace.
Occorre educare a essere generosi
di cuore, sperimentando l’economia
del dono, della gratuità. La radice del
“non rubare” è anche il possedere: si
ruba perché non si è mai soddisfatti
di quello che si ha, pervasi dalla bramosia
dell’avere e dell’accumulare.
9 - Non dire falsa testimonianza.
Anche la falsa testimonianza è dentro
di noi come menzogna, bugia o ammorbidimento
della verità. Un atteggiamento
che si fa cultura, che si stabilizza
nell’uomo come simulazione, finzione,
verosimiglianza della realtà sostituita
dalla fiction. Stare dalla parte
della verità, difenderla, è atto di giustizia
e d’amore verso sé stessi e gli altri.
J Non desiderare la donna d’altri.
“La donna d’altri”. Sembra un Comandamento
al maschile. Ma è, oggi, anche
“l’uomo d’altre”. La donna, l’uomo,
non sono una cosa che si desidera,
che appartiene a qualcuno come una
“cosa”. Quanti delitti passionali, quanta
violenza domestica, quanta discriminazione
del genere femminile rispondono
a questa logica disumanizzante.
10 - Non desiderare la roba d’altri.
L’invidia sta alla base di questo e del
precedente Comandamento. È il più
“socievole dei vizi”. La modernità ha
esaltato la cultura dell’invidia. Nelle
società civili avanzate, in Occidente, il
presupposto della democrazia è
l’uguaglianza: “Io devo avere gli stessi
diritti degli altri”. Ma questo non significa
soffrire “il complesso dell’essere
identici”, cioè di possedere le stesse
cose degli altri, divenendone schiavo,
oppure impoverendosi, indebitandosi,
ammalandosi per quelle che si
invidiano e non si possono possedere.
La “nuova evangelizzazione” ha bisogno
di gesti e luoghi; di nuovi “aeropaghi”,
secondo la definizione del Beato
Giovanni Paolo II, il quale invocava anche
“nuovo ardore, nuovi metodi, nuove
espressioni”. La speranza è che il progetto
“Dieci Piazze per Dieci comandamenti”
vada in questa direzione.
Salvatore Martinez