La ricerca del farmaco come soluzione

Di fronte ai sintomi dei disturbi psichici occorre superare la frettolosa tendenza all’assunzione di ansiolitici o antidepressivi. I farmaci non vanno demonizzati ma neanche idolatrati.

Le metamorfosi

27/10/2011

Questo discorso sull’ansia come esperienza che fa parte della vita, e che è sempre un’esperienza relazionale, non entra in gioco solo nell’infanzia e nell’adolescenza; maanche, benché ovviamente con altre dinamiche, e con altri meccanismi, nell’età adulta e nell’età anziana. Come si sa, sia l’ansia sia il disagio depressivo sono molto più frequenti, in età adulta, nella donna che non nell’uomo; e questo come conseguenza della più ricca vita interiore della donna, e conseguentemente della sua più rapida percezione degli stati d’animo propri, e altrui, quando questi siano incrinati dal dolore, o dalla sofferenza ma anche, certo, dalla gioia. La disponibilità all’ascolto è un altro elemento che distingue la donna nei riguardi dell’uomo più facilmente divorato dalla categoria dell’homo faber; e allora si comprende come le ragioni, e la frequenza, di una più alta sensibilità femminile al significato, e alla crisi, delle relazioni umane renda la donna più fragile, più esposta, all’insorgenza di fenomeni ansiosi che nulla hanno in sé nondimeno di patologico, e che esigono un cambiamento di atteggiamento da parte di chi viva accanto a lei.

Cosa dire, poi, dell’ansia, che non di rado è ansia della morte, quando questa, senza essere ansia patologica, scende come aquila ferita in una persona anziana che viva in famiglia, o che viva invece in una casa di riposo? Ci accontentiamo, anche qui, di prescrivere ansiolitici, nell’illusione che rimuovano la condizione di ansia esistenziale, e, se questo non avviene, pensiamo che si abbia a che fare con una condizione emozionale senza sbocco? E nondimeno non dovremmo cadere prigionieri, è così facile, della forza devastante del pregiudizio, che non sa riconoscere nell’ansia relazionale, nell’ansia che nulla ha di patologico, un’espressione significativa della vita, e non di rado una disperata richiesta di aiuto. Non guardiamo ai farmaci ansiolitici, o antidepressivi, come a panacea che rimuova ogni forma di ansia, e non solo quella psicotica, o in parte quella neurotica. Non aiuteremmo le persone che stanno male, e ne aggraveremmo le loro condizioni psicologiche e umane. Non saranno queste mie parole a cambiare uno stato di cose così radicato nei pregiudizi di un’opinione pubblica che riaffida alla semplificazione, e ai progressi della tecnica, la soluzione di problemi che nascono dalla complessità della vita di oggi; ma solo riflessioni, che abbiano a sottolineare la necessità di una svolta copernicana nell’educazione e nella formazione delle giovani generazioni, e nella comprensione dei problemi psichici che crescono con l’età, e con il dilagare delle tecnologie, hanno un senso. In questo discorso non possono, ovviamente, non essere implicati i medici di base, che devono essere in grado di diagnosticare, non è davvero difficile, la presenza di una semplice ansia relazionale, e delle sue complicazioni. Le cose cambiano, certo, quando l’ansia assuma le connotazioni molto più complesse di un’ansia neurotica, e di un’ansia psicotica, che al di là della loro grande significazione psicopatologica non costituiscono se non un’area ristretta nel contesto di un disagio tematizzato dall’ansia relazionale nella quale siamo tutti pascalianamente imbarcati.

Quando si abbia a che fare, in particolare, con un disturbo d’ansia di origine neurotica, ovviamente più complessa e più stratificata che non l’ansia relazionale, la farmacoterapia è subalterna all’insostituibile esigenza di una rigorosa psicoterapia; anche se i confini fra ansia relazionale e ansia neurotica sono sempre fluttuanti, e non certo pietrificati. Le strategie terapeutiche non possono, invece, non implicare, quando si abbia a che fare con esperienze di ansia psicotica, la somministrazione di farmaci ad azione ansiolitica associati, del resto, a farmaci ad azione antipsicotica: mai disgiunta, in ogni caso, da una psicoterapia di sostegno. L’ansia psicotica è, del resto, inconfondibile, e di questa si occupa ovviamente la psichiatria, nella sua vertiginosa escalation tematica: come, per esempio, in Paola: «Dispero ormai di uscire dall’abisso nel quale una profonda solitudine interiore mi ha confinata. Questa solitudine è assoluta e mortale: niente può alleviarla e tutto può accrescerla. Non esiste calore che riesca a sciogliere i ghiacciai che ho dentro e non c’è luce capace di diradare le tenebre che mi avvolgono ». L’ansia psicotica, quando si radicalizza, oltrepassa i confini tematici dell’esperienza rivissuta, e narrata, da Paola, e sconfina nell’emblematica metamorfosi interiore tematizzata dall’insorgenza di uno stato d’animo delirante che, a sua volta, si accompagna a modificazioni profonde nel modo di rivivere le relazioni con gli altri e con il mondo; e accenno a queste cose solo al fine di indicare quali abissi separino l’ansia relazionale, l’ansia normalmente rivissuta da ciascuno di noi, dall’ansia psicotica: che ci è così radicalmente estranea. Come ci sono estranee le esperienze vissute di Alessandra, immersa in un’angoscia lacerante, e ins o s t e n i b i l e : «Mi sento sfinita e dissociata: la testa è completamente vuota. Annaspo e boccheggio. Non merito il vostro aiuto perché ho già deciso di morire. Io non mi trovo più, sono tutta sparsa, sono sparsa da tutte le parti. Mi sono resa inguaribile, non so perché, forse perché nessuno più potesse guarirmi. Mi sento prigioniera di me stessa, in tutti i modi, e mi sento trasformata nel corpo». Questa è l’ansia psicotica, l’ansia che ci deve allarmare, l’ansia che si deve curare con farmaci ansiolitici e antipsicotici.

Eugenio Borgna
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