17/06/2013
Dopo gli alunni di seconda e quinta elementare, dopo quelli di prima media e di seconda superiore, oggi 17 giugno tocca ai circa 600 mila studenti di terza media sottoporsi alle prove Invalsi, questa volta all’interno dell’esame di licenza (il punteggio dei test andrà a determinare per un sesto il voto d’esame).
Le prove Invalsi sono test introdotti per la prima volta nel 2008 (inizialmente in via sperimentale) dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione (da cui l’acronimo) nelle discipline Italiano e Matematica.
Dal prossimo anno scolastico i test Invalsi verranno proposti anche all’ultimo anno della scuola superiore: non sembra però, come qualcuno inizialmente aveva ventilato, all’interno dell’esame di maturità (al posto della cosiddetta “terza prova”, finora approntata dalle singole commissioni), analogamente a quanto avviene per l’esame di licenza media. Le prove saranno invece somministrate in un momento a sé stante.
Il significato di uno strumento
Le prove Invalsi hanno lo scopo di porre a confronto i risultati raggiunti dalle diverse scuole (e all’interno degli istituti, dalle singole classi) quanto ai livelli di apprendimento. Lo scopo è quello di monitorare l’efficacia del sistema formativo e di apportarvi, se e quando necessario, i dovuti correttivi.
L’effetto di tale sistema di valutazione è anche quello di garantire, nel medio e lungo periodo, un minimo comun denominatore per quanto riguarda le scelte didattiche dei singoli docenti. Forse pochi forse lo sanno, ma da alcuni anni non esistono più i vecchi “programmi ministeriali”.
Nella scuola dell’autonomia ogni docente presenta a inizio anno una propria “programmazione disciplinare”, che deve però tenere conto delle “Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento”. Un documento nel quale sono stati fissati alcuni doverosi paletti. Paletti che uno strumento come le prove Invalsi può aiutare a verificare che vengano rispettati da tutti.
Proteste e perplessità
Sono note, tuttavia, le perplessità di molti insegnanti e pedagogisti in merito allo strumento di queste prove “strutturate”, considerate troppo rigide e asettiche, e dunque incapaci di valutare, ad esempio, fantasia e creatività, oltre a essere spesso incongruenti con la specificità dei diversi approcci didattici.
Ciò sfocerebbe in una limitazione della libertà di insegnamento, spingendo inoltre la scuola italiana verso la deriva di ciò che gli anglosassoni chiamano il “teaching to test”: il paradosso per cui si riorganizza l’insegnamento in funzione di una valutazione imposta dall’alto, e non si pensa quest’ultima quale momento conclusivo conseguente all’azione didattica: uno strano ribaltamento della normale consequenzialità.
Roberto Carnero
Orsola Vetri (a cura di)