04/10/2012
Se da una parte i videogiochi si propongono sempre di più finalità didattiche e formative, dall'altro sono ancora percepiti come dei riempitivi tra un'attività e l'altra. Con i giochi tradizionali, come Monopoli e Risiko, quando uno si sedeva per giocare, era perché voleva sedersi e mettersi a giocare. Oggi si gioca in modo ambivalente, casuale, compulsivo. I videogiochi rappresentano uno spazio vuoto nella nostra giornata più che una vera e propria attività. E arrivano a tutti: nel 2007 con l'invenzione dell'iPhone sviluppare giochi e distribuirli, attraverso l'App store, è diventato ancora più facile. Ne parliamo con
Massimiliano Andreoletti, docente di Didattica del gioco e e dell'animazione dell'Università Cattolica di Milano.
- Professore, quali sono oggi le abilità che un videogioco deve sviluppare nei bambini?
«Il gioco è da sempre una piccola grande scuola di vita. Se parliamo di videogioco la motivazione che mi spinge a giocare è intrinseca al gioco stesso: conquistare punteggi sempre più alti per migliorare la mia posizione in classifica. Per riuscirci devo diventare abile con quell'interfaccia, imparare le regole del gioco e applicarle per raggiungere il mio scopo. Dovrò essere molto preciso e rapido nella digitazione perché questo farà la differenza: alla fine dovrò riuscire a utilizzare la tastiera con tutte le dita senza doverla necessariamente guardare. Dal canto suo il gioco deve essere fondamentalmente semplice perché solo così motiva il giocatore, aumentando progressivamente il livello di complessità, a digitare su un'interfaccia delle lettere con una certa abilità, per poi passare al livello successivo. Oggi si preparano i cittadini del 2030 e quindi l'insegnamento scolastico e il gioco, che oggi ne fa sempre di più parte, devono proiettarsi sul lungo periodo: sarebbe impossibile prescindere dalla tecnologia, che una volta entrata nell'uso comune non si può più eliminare, al massimo si perfeziona».
- I giochi sono sempre più tecnologici. Stiamo perdendo il senso del gioco inteso in senso tradizionale o è un valore aggiunto?
«E' una naturale evoluzione del gioco tradizionale. Il gioco è la rappresentazione perfetta della società che lo crea. Ogni epoca storica e cultura hanno creato giochi, modalità del gioco, interfacce, metafore: gli scacchi erano un'interfaccia, una metafora della società. Tanti giochi scompaiono perché educando a una società e a una cultura precise, mutando queste, non trovano più ragion d'essere: penso al Monopoli degli anni '30 basato sul capitalismo o, a ritroso, al gioco della palla presso i Maya dove la sfera simboleggiava la perfezione, il dio, e chi perdeva veniva sacrificato. La società attuale vuole mettere tutti alla pari. Il cosiddetto sogno americano è questo: chiunque ce la può fare. Ci sono persone malate di Sla che senza interfaccia non comunicherebbero più con nessuno perché al massimo riescono a muovere il dito mignolo».
- Come sono cambiati i videogiochi dal mitico "Game Boy" a oggi?
«La tecnologia ha agevolato il produttore del videogioco a realizzare qualcosa di sempre più reale. Il classico Pong sviluppato da Higinbotham era una simulazione semplicistica del tennis: io dovevo pensare che il rettangolo era il giocatore e il quadrato la pallina. Oggi non solo il giocatore è in carne e ossa ma se gioco contro il campione svizzero riesco anche a vedere se ha la barba incolta. Ho una potenzialità narrativa in più. Nel cinema l'illusione in movimento è data da almeno 24 fotogrammi al secondo: quanto è reale qualcosa che ne fa passare 150 al secondo? Smartphone e i-pad stanno erodendo molto le quote di mercato di interfacce come Nintendo. L'ultima evoluzione è la naturalità: basta pensare a tutti quei giochi che usano sistemi di riconoscimento del movimento che rilevano il corpo».
- Se i videogiochi tendono sempre di più alla realtà perché non ritornare ai giochi reali?
«Questo varrebbe solo per alcuni giochi. Pensiamo al calcio: tutti
vorremmo essere dei campioni, ma non tutti ne abbiamo l'abilità. Per
qualche secondo il videogioco mi procura l'illusione, o meglio il
piacere di esserlo. Ci sono anche giochi che nella realtà non sono
producibili ma stuzzicano ugualmente l'utente».
- Il New York
Times li ha definiti "giochi stupidi".
«Nella
Passione di Gesù c'è una componente-caso enorme: i soldati romani si
giocano a dadi il suo mantello. Che senso ha giocarsi il simbolo del
potere del figlio di Dio a dadi? Nello sport, pensiamo al gioco del
calcio: che senso ha correre dietro a una sfera? Non parlerei di
stupidità nel gioco in generale».
- Cosa può creare una
dipendenza?
«La monomedialità. Se l'essere genitore si riduce a
riempire il tempo dei bambini per far sì che non diano noia agli
adulti, quel genitore non è un buon educatore. Oggi ci sono bambini che
hanno l'agenda di un manager, non hanno spazi dove sporcarsi le mani,
sudare. La console del videogioco, come potrebbe essere la televisione,
risolve il problema: è asettica, non crea polvere, non sporca, si spegne
in un attimo. E i bambini stanno buoni. Non la metterei in un'ottica di
limiti ma di opportunità: il genitore deve fornire al proprio figlio
tante occasione per potersi esprimere. Il videogioco ha una potenzialità
che diventa un limite: aumentando gradualmente la complessità del
gioco, riesce a soddisfare sempre di più il cervello».
- Forse
bisognerebbe diffondere una cultura diversa del gioco, riappropriarsi
del suo significato originario.
«Oggi si pensa al gioco più come
un riempitivo che come attività formativa. Il gioco invece è
un'attività di estrema importanza: insegna la vita. Nei popoli antichi
era connesso ai riti religiosi: Cristo spiegava come ci si doveva
approcciare a lui: “venite a me come bambini”, e i bambini la prima
cosa che fanno è giocare. Nel gioco bisogna lasciare libertà di azione e
di fine, anche se poi questo si identifica con il piacere: si fa un
gioco perché sostanzialmente piace e quindi rende felici. Si dice che
iniziamo a giocare già nel ventre materno. Nel gioco c'è la cultura,
l'imparare a diventare grandi. In ogni età ci sono modalità diverse di
rapportarvisi, ma è giocando che si impara a diventare un buon cittadino
domani».
Francesca Fiocchi
Francesca Fiocchi