04/10/2012
Sono ormai preistoria gli anni
cinquanta quando il videogioco iniziava a muovere i primi passi negli
ambienti di ricerca scientifica e nelle facoltà universitarie americane,
per poi svilupparsi a partire dalla seconda metà degli anni settanta.
Se pensiamo al "Game Boy" e a "Tetris", incluso nel prezzo, semplice ma
irresistibile - era il 1989 e il colosso giapponese Nintendo proponeva
così la sua versione dell'idea di libertà - di strada ne è stata fatta.
Il Game Boy era una console portatile di plastica a forma di piccola
lavagnetta che funzionava con le pile e prometteva di liberare gli
appassionati di videogiochi dalla tirannia delle sale giochi. Ne furono
venduti più di settanta milioni: il gioco era abbastanza semplice da non
creare confusione, l'azione era ripetitiva e senza trama. E soprattutto
rispecchiava a modo suo quella società segnata profondamente dalla
caduta del Muro di Berlino (Tetris consisteva in tanti piccoli
mattoncini che cadevano dall'alto).
Oggi
il videogioco ha raggiunto un livello di maturità con implicazioni
sociologiche, economiche, antropologiche, esistenziali, ma anche, e
soprattutto, pedagogiche. Non c'è bambino che non ne usi almeno uno,
anzi l'età media dei videogiocatori si è alzata con l'avvento degli smartphone.
L'industria videoludica ha un fatturato complessivo superiore a quella
cinematografica, contaminata a sua volta: cinema - pensiamo alla
trilogia di Matrix o alla ormai mitica Lara Croft, personaggio immaginario protagonista della serie di videogiochi Tomb Raider
da cui sono derivati film e fumetti - ma anche televisione, letteratura
e pubblicità non possono più prescindere dalla sua presenza, via via
intensificata dalla diffusione di Internet negli anni novanta, che ha
permesso lo sviluppo di un'intelligenza connettiva capace di trovare una
sua piena collocazione nel mondo scolastico in funzione pedagogica (un
esempio ne è Stopdisasters lanciato
online dalle Nazioni Unite per insegnare ai più piccoli a costruire
città e villaggi a prova di calamità naturali).
Con l'avvento delle tecnologie digitali che si basano
sull'interattività, la multimedialità, la plurisensorialità, i
videogiochi consentono un apprendimento sempre più divertente, oltre che
utile, e stimolano nuove prospettive di insegnamento. Un esempio è Impara con i Pokèmon – avventura tra i tasti,
il nuovissimo titolo Nintendo per console portatile Ds e 3Ds dedicato
ai bambini da 6 a 12 anni: una nuova avventura in chiave
ludico-educativa nel mondo di Pikachu & friends per migliorare la
capacità di digitazione su una tastiera attraverso sessanta livelli
crescenti di difficoltà man mano che si sviluppano le abilità
dattilografiche. Al giocatore, nuovo membro del Circolo dei dattilografi virtuale,
viene chiesto all'inizio di digitare solo l'iniziale del nome del
Pokèmon incontrato, per poi passare a esercizi più impegnativi.
Il massmediologo canadese Marshall McLuhan scriveva che «coloro che
fanno distinzione tra intrattenimento e educazione forse non sanno che
l'educazione deve essere divertente e il divertimento deve essere
educativo». Per esprimere il concetto è stato coniato il termine endutainment (fusione delle parole educational e entertainment).
In sostanza, quello che ci auspichiamo diventi la funzione esclusiva
del videogioco del futuro: educare divertendosi, sviluppare delle
abilità.
Francesca Fiocchi