Dossier tasse: io pago, tu paghi, lui...

Le tasse come le paghiamo noi italiani e come le pagano i cittadini di altri Paesi. Il difficile equilibrio tra equità, giusta misura ed esigenze collettive.

La differenza tra Usa ed Europa

01/01/2013
Un operaio americano (Reuters).
Un operaio americano (Reuters).

Da una prima lettura appare evidente la distanza degli Stati Uniti dagli altri grandi Paesi europei e dal Giappone. Per quanto negli Usa la tassazione sul reddito sia modulata in ragione della condizione familiare (gli scaglioni variano per capofamiglia, coniuge  o single), le aliquote sono nettamente più basse rispetto a quelle della media europea e dello stesso Giappone. Più oneroso il carico fiscale sul reddito di impresa e largamente inferiore quello per l’IVA.


Questi dati ci offrono il quadro di una società in cui il ruolo dello Stato è contenuto rispetto all’Europa, con una responsabilità della fascia ricca della popolazione largamente inferiore a quella esercitata in altri Paesi. Un cittadino americano che guadagni 150.000 euro sopporta una aliquota marginale del 28%, in Giappone sarebbe del 33%, in Italia del 43%, in Francia del 45%, nel Regno Unito del 40%. La differenza è ingente. Questa condizione è frutto delle agevolazioni fiscali nei confronti dei ricchi operati dall’Amministrazione Bush, proprio quelle che i repubblicani hanno cercato di salvaguardare e che Obama ha parzialmente ridotto con l’accordo sul fiscal cliff.  Un bilancio dello Stato più esile rispetto al valore complessivo dell’economia nazionale permette qualche flessibilità in più quando c’è crisi. Per questo l’Amministrazione Obama è parsa in questi anni più capace di offrire stimoli espansivi all’economia Usa con un uso attivo degli strumenti di spesa, come è avvenuto ad esempio nel settore automobilistico.  

Va detto però che a questa dimensione più contenuta dello stato corrisponde un ruolo minore dal punto di vista sociale e della tutela delle persone. Gli Usa ci sono apparsi più bravi economicamente, ma si tratta di una immagine superficiale.  Se i numeri aggregati hanno mostrato una ripresa che l’Europa fatica a creare, in Europa stati più robusti hanno garantito tutele sociali molto maggiori. Negli Usa la crisi ha aumentato i fenomeni di marginalizzazione e di povertà urbana che in Europa sono di fatto sconosciuti in questa misura.  Uno stato sociale robusto, che ovviamente costa e che in tempo di crisi  (quando il prelievo fiscale automaticamente diminuisce) si finanzia aumentando il debito, ha permesso una molto più consistente tutela della dignità della vita umana, dal garantire cure e scuola al provvedere casa e sostegni nella mobilità lavorativa.  

In un tempo in cui l’Europa si descrive in crisi, dovremmo essere più orgogliosi di questa capacità. Basterebbe parlare di chi si occupa di relief e volontariato negli States e in Europa per rendersi conto di come fasce consistenti della società Usa sono tornate in condizioni di povertà e disagio, in una dinamica molto più grave di quella europea, che i numeri aggregati non descrivono.

 

L’Italia


La seconda considerazione riguarda il nostro Paese.  Pur con le cautele che abbiamo raccomandato nel raffrontare dati diversi, appare comunque evidente uno squilibrio italiano nella distribuzione delle aliquote rispetto a tutti gli altri Paesi.  Un italiano  con un reddito di 25.000 euro, non certo un nababbo, affronta una aliquota marginale del 28%; con un reddito di 30.000 l’aliquota marginale passa a 38%.   

 

In Francia le due aliquote sarebbero 14 e 30, rispettivamente 14 (la metà!) e 8 punti in meno. In Gran Bretagna in entrambi i casi l’aliquota sarebbe del 20%. Dall’altra parte non si può dire che i contribuenti più abbienti sopportino uno sforzo superiore a quello richiesto in altri Paesi.  L’aliquota massima è del 43 senza più alcuna progressività oltre i 75.000 euro (e stiamo parlando di reddito imponibile, cioè poco meno del reddito lordo, una cifra quasi doppia del netto che un dipendente riceve in busta paga).   Il criterio della progressività - inserito esplicitamente nella nostra Costituzione per garantire equità nel prelievo - è del tutto disatteso al di sopra di un livello di reddito che certo garantisce benessere, ma è molto lontano dalle remunerazioni di buona parte della classe dirigente del Paese.

Il diverso contributo relativo alla contribuzione fiscale delle diverse fasce sta enfatizzando fenomeni preoccupanti dal punto di vista del disegno sociale del Paese. Le famiglie normali, tanto più se numerose, fanno maggiori fatiche rispetto al passato. L’occupazione giovanile non decolla e gli over 45 che perdono il lavoro rischiano di non trovarlo più, spiazzati proprio dai giovani che si accontentano di redditi minori perché non devono mantenere figli. La scelta di mettere al mondo bambini si rinvia in attesa di stabilità. 

L’Italia rimane il Paese con il maggior tasso di risparmio, ma se una volta erano le famiglie in generale a risparmiare, ora sono solo gli anziani abbienti, che spesso prestano ai propri figli. Poche famiglie con i genitori under 50 sono in grado di comperare casa. Se devono farlo usano prestiti dei genitori, dei nonni. Ma non sono rari i casi di risparmi degli anziani usati  ogni mese a sostegno del reddito dei figli per le spese di consumo.  

In tutto questo quadro aumenta, e tanto, il fatturato del lusso. Non sono solo vendite ai nuovi ricchi stranieri, sono vendite in Italia. E ancora, se si guarda al livello medio delle retribuzioni e dei redditi, la distanza tra la fascia più ricca e quella più povera, dopo essersi ridotta dal dopoguerra agli anni Ottanta, si è allargata creando una vera forbice che aumenta sempre di più negli ultimi venti anni, con un incremento ancora maggiore negli ultimi 5 anni. C’è un popolo, numeroso, di donne e uomini che fanno fatica, e un’elite che gode di condizioni economiche sempre migliori. E’ questa l’Italia che vogliamo?

 

 

Riccardo Moro
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