Va detto però che a questa dimensione più contenuta dello stato
corrisponde un ruolo minore dal punto di vista sociale e della tutela delle
persone. Gli Usa ci sono
apparsi più bravi economicamente, ma si tratta di una immagine
superficiale. Se i numeri
aggregati hanno mostrato una ripresa che l’Europa fatica a creare, in Europa
stati più robusti hanno garantito tutele sociali molto maggiori. Negli Usa la crisi ha aumentato i
fenomeni di marginalizzazione e di povertà urbana che in Europa sono di fatto
sconosciuti in questa misura. Uno
stato sociale robusto, che ovviamente costa e che in tempo di crisi (quando il prelievo fiscale
automaticamente diminuisce) si finanzia aumentando il debito, ha permesso una
molto più consistente tutela della dignità della vita umana, dal garantire cure
e scuola al provvedere casa e sostegni nella mobilità lavorativa.
In un tempo in cui l’Europa si descrive
in crisi, dovremmo essere più orgogliosi di questa capacità. Basterebbe parlare
di chi si occupa di relief e
volontariato negli States e in Europa per rendersi conto di come fasce
consistenti della società Usa sono tornate in condizioni di povertà e disagio,
in una dinamica molto più grave di quella europea, che i numeri aggregati non
descrivono.
L’Italia
La seconda considerazione riguarda il nostro Paese. Pur con le cautele che abbiamo
raccomandato nel raffrontare dati diversi, appare comunque evidente uno
squilibrio italiano nella distribuzione delle aliquote rispetto a tutti gli
altri Paesi. Un italiano con un reddito di 25.000 euro, non
certo un nababbo, affronta una aliquota marginale del 28%; con un reddito di
30.000 l’aliquota marginale passa a 38%.
In Francia le due aliquote sarebbero 14 e 30,
rispettivamente 14 (la metà!) e 8 punti in meno. In Gran Bretagna in entrambi i
casi l’aliquota sarebbe del 20%.
Dall’altra parte non si può dire che i contribuenti più abbienti
sopportino uno sforzo superiore a quello richiesto in altri Paesi. L’aliquota massima è del 43 senza più
alcuna progressività oltre i 75.000 euro (e stiamo parlando di reddito
imponibile, cioè poco meno del reddito lordo, una cifra quasi doppia del netto
che un dipendente riceve in busta paga). Il criterio della progressività - inserito
esplicitamente nella nostra Costituzione per garantire equità nel prelievo - è
del tutto disatteso al di sopra di un livello di reddito che certo garantisce
benessere, ma è molto lontano dalle remunerazioni di buona parte della classe
dirigente del Paese.
Il diverso contributo relativo alla contribuzione fiscale delle
diverse fasce sta enfatizzando fenomeni preoccupanti dal punto di
vista del disegno sociale del Paese.
Le famiglie normali, tanto più se numerose, fanno maggiori fatiche
rispetto al passato. L’occupazione
giovanile non decolla e gli over 45 che perdono il lavoro rischiano di non
trovarlo più, spiazzati proprio dai giovani che si accontentano di redditi
minori perché non devono mantenere figli. La scelta di mettere al mondo bambini
si rinvia in attesa di stabilità.
L’Italia rimane il Paese con il maggior tasso di risparmio, ma se una
volta erano le famiglie in generale a risparmiare, ora sono solo gli
anziani abbienti, che spesso prestano ai propri figli. Poche famiglie con i
genitori under 50 sono in grado di comperare casa. Se devono farlo usano prestiti
dei genitori, dei nonni. Ma non
sono rari i casi di risparmi degli anziani usati ogni mese a sostegno del reddito dei figli per le spese di
consumo.
In tutto questo quadro
aumenta, e tanto, il fatturato del lusso. Non sono solo vendite ai nuovi ricchi
stranieri, sono vendite in Italia.
E ancora, se si guarda al livello medio delle retribuzioni e dei
redditi, la distanza tra la fascia più ricca e quella più povera, dopo essersi
ridotta dal dopoguerra agli anni Ottanta, si è allargata creando una vera forbice
che aumenta sempre di più negli ultimi venti anni, con un incremento ancora
maggiore negli ultimi 5 anni. C’è un popolo, numeroso, di donne e uomini che fanno fatica, e
un’elite che gode di condizioni economiche sempre migliori. E’ questa l’Italia
che vogliamo?