Missioni/5: "Più armi che gente"

Nino Sergi, segretario generale di Intersos, interviene nel dibattito sulle missioni militari. E rivendica ruolo e risultati della cooperazione civile non governativa.

08/02/2011
Nino Sergi, segretario generale di Intersos.
Nino Sergi, segretario generale di Intersos.

Lo si voglia riconoscere o no, ci sono persone, cooperanti delle Ong, che hanno passato anni in Afghanistan; anche prima del dispiegamento dei contingenti Isaf, quando cioè, in un territorio non militarizzato, ci si poteva muovere da una provincia all’altra senza troppi problemi, anche fermandosi per la notte in un villaggio sconosciuto. Sono cooperanti e operatori umanitari che conoscono l’Afghanistan: hanno vissuto in cittadine sperdute o in campi profughi con migliaia di persone, in un rapporto diretto, senza filtri, talvolta passando ore nei cortili delle abitazioni, parlando e stabilendo relazioni umane di piena fiducia reciproca.

     Questo non per parlare di noi, ma per precisare al sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto i termini della questione: conosciamo l’Afghanistan e non abbiamo nessuna voglia di sterili polemiche. Vogliamo aprire, invece, una seria riflessione (come da lui auspicato) sulle ragioni di una presenza così imponente della Nato in Afghanistan, ora, a dieci anni dalla fuga del regime talebano. Riflessione che non può che partire da un punto centrale: la popolazione afgana.  

     Non abbiamo mai negato che in Afghanistan ci siano stati progressi; mai negato che la missione Isaf sia legittimata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2001 e che la presenza militare italiana sia stata decisa nel rispetto della nostra Costituzione. A tutto ciò occorrerebbe però saper affiancare, con onestà, anche gli insuccessi, la diffusa corruttela, la debolezza delle istituzioni, il senso di provvisorietà di quanto è stato ‘ricostruito’, lo stato di guerra, le vittime civili e le distruzioni che sono state il risultato di quegli ‘effetti collaterali’ che si sono ripetuti negli anni creando forti risentimenti anche dove non c’erano; e altro ancora.  

     Ci sembra necessario che siano date adeguate risposte alle domande che da tempo vengono poste.  Esistono ancora le ragioni, oggi, perché l’Italia rimanga a combattere in Afghanistan? La popolazione afgana è al centro delle scelte politiche? La missione militare risponde alle aspettative degli afgani? Quale la strategia e quali gli obiettivi di breve ma anche di lunga durata, che coinvolgano la popolazione afgana, il suo benessere e il suo futuro? Quale il significato di un’azione mirata a ‘ripulire’ il territorio di qualche chilometro, sapendo che tutto ciò rimane tremendamente precario e instabile?

     A noi sembra che, a furia di analisi ottimistiche, di rifiuto di guardare alla realtà ed affrontarla in modo approfondito nelle sedi opportune, ed in particolare nei Consigli dell’Alleanza Atlantica, a furia di rappresentazioni della realtà auto-compiacenti, ora non si sa più come sciogliere il nodo afgano. Mentre gli interessi della popolazione afgana diventano, in questa incertezza, sempre più sfumati.   Da un lato, è innegabile che il dispositivo militare stia diventando il principale strumento di intervento del nostro Paese, dato che la cooperazione civile è stata ormai ridotta al lumicino, esprimendo così il messaggio che i bisogni della popolazione interessano sempre di meno, o solo per “conquistare le menti e i cuori” (come pretende la strategia Nato), cioè in modo strumentale alla buona riuscita dell’intervento militare. E gli afgani lo capiscono.

     Ecco perché fa la differenza se una scuola o un ambulatorio sono costruiti e seguiti nel tempo dalla cooperazione civile piuttosto che decisi dai contingenti militari. E’ quindi fuorviante l’interrogativo posto dal sottosegretario: “vanno bene se sono costruiti dalle Organizzazione non governative e non vanno bene per niente se vengono realizzati dagli appositi reparti delle Forze armate?”   Dall’altro lato, la politica non ha saputo che prorogare l’intervento militare, senza esigere dall’Alleanza Atlantica maggiore chiarezza e lucidità in merito alle operazioni nel ‘teatro’ afgano. Quali gli obiettivi comuni e condivisi? Sulla base di quali analisi e valutazioni? Con quale strategia di successo? Con quali risultati prevedibili e duraturi? Con quale processo di pacificazione? Con quale strategia regionale? Il rischio di avere sprecato dieci anni, non solo in risorse ma anche in vite umane, potrebbe divenire realtà, se le risposte a queste domande continuano ad essere insufficienti.  

     Non sono i militari, in ogni caso, i primi a dover dare le risposte alla serie di interrogativi che emergono sempre più pressanti. Spetta alla politica fare chiarezza e rispondere. “Siamo in Afghanistan in ambito Onu e Nato: non basta?”, ha affermato il sottosegretario Crosetto. No, a nostro avviso non basta più. E siamo convinti che anche il sottosegretario lo sappia.

Nino Sergi
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Postato da Andrea Annibale il 08/02/2011 01:42

Le armi sono, a mio avviso, nient’altro che il veicolo di idee politiche, di modelli sociali di convivenza, di interessi economici, di modelli religiosi. A volte, le armi occidentali e, per così dire, cristiane sono state veicolo per portare alcoolismo, droga, prostituzione, pornografia e gioco d’azzardo, oltre alla fede e a svariate cose buone. In genere, ci sono modelli di comportamento verso i quali l’Islam è fortemente refrattario. L’Islam si difende dai mali dell’occidente e pretende, contemporaneamente, di espandersi. E’ contemporaneamente santo e pernicioso. L’Islam è, sempre secondo me, un groviglio inestricabile di cose buone e di cose cattive. Come cristiani, non possiamo che vigilare perché le armi non siano strumento di corruttela morale di società che hanno valori morali altissimi, anche se non cristiani. Leggendo la storia dell’Afghanistan, ci accorgiamo quanto essa sia segnata dalle invasioni e dalle guerre. La guerra secondo me è una conseguenza del Peccato Originale e non verrà mai eliminata finche non torni Cristo alla fine dei tempi. Certo che se l’essenza di cui si discute è la costruzione di qualche ponte, di qualche strada e di qualche ambulatorio medico, stiamo veramente discutendo di aspetti secondari rispetto alle profonde trasformazioni che la storia afgana ha conosciuto durante la sua storia per effetto delle guerre, dei flussi migratori e dell’influenza di diversi modelli sociali e religiosi.

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