01/12/2011
Franco Morelli
Il difficile viene quando il bianco e il nero sfumano nel grigio, quando la rete delle complicità si infittisce fino a sembrare inestricabile e il confine tra Stato e antistato, tra nornalità e criminalità, tra economia e malaffare, non si vede più nitidamente.
Di questo vive la mafia, di questo terreno di coltura si alimenta la 'ndrangheta con il suo potere tentacolare. Lo sa bene chi da una vita lavora a segare tentacoli. Lo diceva giusto due sere fa, in una libreria milanese, Nicola Gratteri, procuratore della Dda di Reggio Calabria che qualche settimana fa aveva chiesto 118 condanne al maxiprocesso scaturito dall'indagine Crimine al momento in attesa di sentenza: «Milano ha una percenzione ritardata di 10 anni di ciò che le sta accadendo in tema di infiltrazioni di criminalità organizzata». Pensava alla città, non al tribunale ovviamente.
Altre 110 condanne le hanno ottenute in primo grado infatti proprio a Milano 10 giorni fa Paolo Storari e Alessandra Dolci, coordinati da Ilda Boccassini, quasi mille anni di galera per le cosche infiltrate al nord e, per dirla con Gratteri, per quelli che «hanno aperto loro le porte». Era solo l'inizio. La zona grigia, la più difficile da stanare, quella per cui le prove diventano liquide, difficili da portare all'evidenza, era ancora sottotraccia. Quale sia il pericolo l'aveva spiegato bene agli studenti di Milano nel maggio scorso Ilda Boccassini, in una delle rare uscite pubbliche, citando Giovanni Falcone: «Le prove devono essere pesanti, un'indagine che non regge in aula è una vittoria della criminalità organizzata».
Ieri mattina, però, le prove hanno avuto un esito deflagrante, la zona grigia è venuta alla luce, un'ordinanza del Gip ha convalidato 10 arresti chiesti da Ilda Boccassini, capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano: è scattata la custodia cautelare per avvocati, medici, politici, finanzieri, magistrati. L'ordinanza descrive la zona grigia così: una «vera e propria ragnatela di relazioni inestricabili e connesse, in cui tutti prendono e danno qualcosa».
Sono finiti in manette tra gli altri: il giudice Vincenzo Giglio, presidente in Corte d'Assise a Reggio Calabria (avrebbe favorito un esponente del clan Valle-Lampada insediato in Lombardia), suo cugino, Vincenzo Giglio, medico (per concorso esterno in associazione mafiosa), l'avvocato Vincenzo Minasi (per concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreti d'ufficio, intestazione fittizia di beni, reati aggravati dalla finalità di favorire la 'ndrangheta), il consigliere regionale Pdl della Calabria Franco Morelli (per concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreti d'ufficio e corruzione), il maresciallo capo della Guardia di Finanza Luigi Mongelli (per corruzione). Altri arresti riguardano esponenti delle famiglie Lampada e Valle.
Una rete di contiguità inquietanti addirittura confinanti, se fosse confermato che, mentre da una parte la Dda di Reggio Calabria indagava, dall'altra parte altri giudici del medesimo Tribunale tessevano relazioni pericolose. Relazioni che fanno intervenire a caldo l'associazione nazionale magistrati: «I fatti che emergono dagli atti d'indagine della Dda della procura della Repubblica di Milano nei confronti anche di magistrati in servizio in uffici giudiziari calabresi appaiono oggettivamente gravi e suscitano sconcerto e indignazione», sostiene L'Anm, «Al di là di ogni valutazione sul merito delle accuse non si può ignorare l'inquietante rete di relazioni tra appartenenti all'ordine giudiziario, pubblici amministratori ed esponenti della criminalità organizzata che emerge dalle indagini».
Siamo alle indagini, vale la presunzione di innocenza, serve la conferma dell'aula. Ma se Milano aveva bisogno di un risveglio di consapevolezza, l'ha avuto.
Elisa Chiari