La signora che sconfisse la guerra

La Premio Nobel Leymah Gbowee, liberiana, è in questi giorni in Italia. La sua storia, la sua battaglia per la pace e l'intervista in cui spiega come è riuscita a raggiungere lo scopo.

"La pace è l’unica impresa per la quale val la pena di perdere"

04/07/2012
La devastazione di Monrovia, capitale della Liberia, durante la guerra civile (Foto: Leto).
La devastazione di Monrovia, capitale della Liberia, durante la guerra civile (Foto: Leto).

«Nel giro di poche ore diventai il punto di riferimento per l’intera mia famiglia. Da semplice diciassettenne con i problemi di una teenager divenni una donna molto arrabbiata, una donna sempre più arrabbiata via via che crescevo». A parlare è Leymah Gbowee, 40 anni, liberiana, Premio Nobel per la pace nel 2011 (insieme ad altre due donne, Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia e sua connazione, e Tawakkul Karman, pacifista yemenita).

     Quando scoppiò quel conflitto, Leymah non era ancora maggiorenne ed era appena rientrata dagli Stati Uniti, dove aveva frequentato l’università alla Eastern Mennonite della Virginia. La sua vita, da allora, è stata dominata e stravolta dalla guerra civile liberiana (1989-2003), un conflitto lungo e sanguinoso che l’ha privata di parenti e amici. Ma anche dei sogni e delle speranze.

     Giovane madre di sei figli, compresa una adottiva, e moglie di un marito violento, Leymah ha deciso di impegnarsi in prima persona in attività umanitarie e a favore della pace. Insieme a Comfort Freeman ha fondato l’associazione Wipnet (Women in Peacebuilding Network, la Rete delle donne per la costruzione della pace).

     Le due donne, che erano anche presidenti di due diverse chiese luterane, arrivarono a rivolgersi direttamente a Charles Taylor, l’allora Presidente del Paese, ma anche sanguinario signore della guerra: "In passato", scrissero nella lettera aperta, "siamo rimaste in silenzio, ma dopo essere state uccise, violentate, disumanizzate e infettate, e aver visto i nostri bambini e le nostre famiglie distrutte, la guerra ci ha fatto capire che il futuro risiede nel dire ‘no’ alla violenza e ‘sì’ alla pace".

     Il movimento guidato da Gbowee e Freeman è stato determinate nel porre fine al conflitto, ma ha anche spianato la strada all’elezione della prima donna Presidente della Liberia: Ellen Johnson Sirleaf. Nel 2003, nel momento più drammatico del conflitto civile, la Nobel ha istituito e diretto la Women of Liberia Mass Action for Peace (Azione collettiva delle Donne liberiane per la Pace), un’associazione di cristiane e musulmane, che hanno messo in atto una serie di iniziative pubbliche e non violente contro Taylor, con ogni mezzo a loro disposizione, compreso lo sciopero del sesso nei confronti dei propri mariti.

     Il movimento si caratterizzava per gli abiti bianchi indossati da tutte le attiviste. Le “donne in bianco” organizzavano incontri di preghiera, sit-in, manifestazioni publbiche per fare pressione su Charles Taylor e sulle fazioni in conflitto allo scopo di trovare una soluzione pacifica alla guerra in atto.

     Dopo che Taylor promise di partecipare ai negoziati di pace in Ghana, Leymah promosse sit-in silenziosi fuori dal palazzo presidenziale di Accra, per impedire che i negoziati si interrompessero e le parti abbandonassero il tavolo della trattativa.

     Oggi Leymah Gbowee vive proprio ad Accra, in Ghana dove è direttore esecutivo della nuova organizzazione che ha contribuito a fondare: Women Peace and Security Network-Africa (Rete delle donne per la pace e la sicurezza). L’associazione si batte si batte per dare appoggio alle donne nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti. Inoltre, partecipa alla Commissione per la verità e la riconciliazione in Nigeria e ha allargato a tutta l’Africa occidentale il “Programma delle donne per la costruzione della pace” (Women in Peacebuilding Program).

     In questi giorni, Leymah è in Italia, per partecipare ad alcune iniziative dell’Ara Pacis Initiative di Roma e al Festival “Caffeina Cultura” di Viterbo. Ha accettato di fare un’intervista esclusiva per famigliacristiana.it.

Un medico visita un bambino denutrito a causa della guerra (Foto: Leto).
Un medico visita un bambino denutrito a causa della guerra (Foto: Leto).

– Dottoressa Gbowee, sedute di preghiera, sit in, sciopero del sesso… Lei ha utilizzato strumenti molto diversi per opporsi alla guerra. Metodi piuttosto insoliti per la cultura occidentale. Perché in Liberia hanno avuto successo?

     «Ogni tattica che abbiamo impiegato per porre fine alla guerra ha avuto differenti effetti nel portare avanti la nostra missione. Ciascuna singola iniziativa, da sola, non avrebbe portato al successo (ad esempio, lo “sciopero del sesso” con  i nostri mariti di per sé ha poco effetto pratico), ma il praticare in forma collettiva molte tattiche differenti ci ha dato sostegno reciproco ed energia, e ha contribuito a costruire un senso di coesione tra le donne liberiane, anche se eravamo diverse per radici etniche e appartenenza religiosa. Ad esempio, lo “sciopero del sesso” è stato messo in pratica più dalle donne delle zone rurali che da quelle di Monrovia, e l’hanno fatto soprattutto in un contesto di fede religiosa. Usando strumenti di protesta diversi, abbiamo creato un movimento inclusivo per le donne liberiane per partecipare nei modi che erano significativi per loro».

– Quanto conta la fede religiosa (cristiana, nel suo caso) nelle scelte che ha fatto?

     «La mia fede influisce in tutto quello che faccio, e mi spinge in luoghi dove non sempre avrei voluto andare. Durante la guerra, ho sognato una voce che mi diceva: “Riunisci le donne a pregare per la pace”. Non sapevo se era la voce di Dio... come poteva essere: ero soltanto una ragazza-madre e una peccatrice. Anche se ero molto riluttante la mia fede mi spinse a osare oltre i miei limiti. Ecco un esempio di cosa intendo quando dico che l’essere credente mi ha spinto a operare con più forza a favore della pace. Non si può dedicare la vita per la pace senza avere il senso di un potere superiore. Non sto dicendo che bisogna essere per forza cristiani, né che si debba essere musulmani, sto dicendo che devi avere un senso di un Essere Supremo che è più grande di te. Per quanto mi riguarda, il mio cristianesimo mi dà la forza di andare avanti e ottenere ispirazione quando lo sforzo razionale è insufficiente».

– In una intervista ad Africa News, lei ha detto: “La mia rabbia mi portò al punto di dover decidere da che parte della guerra volevo stare. Mi chiesi: vuoi stare dalla parte dei persecutori, vuoi stare sempre in mezzo, come vittima, o vuoi stare dalla parte dei vincitori? Scelsi di vincere”. In Repubblica democratica del Congo, in Somalia, in Sudan, e in tante altre parti del mondo la scelta della pace non è stata vincente, almeno finora. Perché?

     «Dire che la scelta della pace non è stata vincente in queste lunghe guerre è un'affermazione prematura. Credo che le donne in queste comunità stiano impiegando strategie che potranno porre fine a quei conflitti. È una questione di tempo: troveranno gli strumenti appropriati. È importante ricordare sempre che “la pace è un processo e non un evento”».

– Durante la guerra liberiana, pacificare il Paese con la non-violenza sembrava un’impresa impossibile. Il potere sembrava essere completamente nelle mani dei signori della guerra, delle bande armate, dei miliziani, dei bambni-soldato. Cosa le fece credere che le riunioni di preghiera e i sit-in avrebbero potuto prevalere sulla violenza cieca?

     «A Monrovia, uno dei viali principali è Broad Street. Nel centro, c’è un monumento – una delle poche statue della città – dedicata alla Convenzione di Ginevra, che dice “Anche le guerre hanno limiti”. Noi liberiani avevamo conosciuto tanta violenza e insicurezza che eravamo stanchi di aver paura. Conoscevamo la paura e la stanchezza e la rabbia delle donne della Liberia, e abbiamo cercato di utilizzare quei sentimenti per farne un movimento costruttivo. La pace non è necessariamente la parte vincente, ma è l’unica per la quale val la pena di perdere».

– È possibile un’autentica riconciliazione fra vittime e carnefici, dopo violenze terribili come quelle avvenute in Liberia e in tanti altri Paesi africani?

     «Sì. Perché è l'unico modo per preservare la pace e impedire che la violenza ricominci. La Liberia è un piccolo Paese e la guerra civile ha colpito tutti. Il rapporto tra vittime e carnefici si intreccia con legami familiari e delle comunità. La riconciliazione non è semplicemente una possibilità, è una necessità. È l’unica via che si può seguire».

Luciano Scalettari
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