04/07/2012
La copertina del libro di Leymah Gbowee.
"Questo non è un racconto di guerra come gli altri. Parla di un esercito di donne in bianco che ha preso posizione e ha fatto sentire la propria voce quando nessun altro voleva farlo; senza paura, perché il peggio che potessimo immaginare era già successo. Parla dell’ostinazione, della lucidità e del coraggio che abbiamo dimostrato opponendoci alla guerra e riportando la pace nella nostra terra. Una storia così non l’avete mai sentita, perché è la storia di una donna africana, e raramente ne vengono raccontate. Voglio che ascoltiate la mia."
Così inizia il libro "Grande sia il nostro potere", l’autobiografia di Leymah Gbowee, l’attivista liberiana premiata col Nobel per la Pace nel 2011. Il prestigioso riconoscimento le è stato dato insieme ad altre due donne, la connazionale di Leymah, presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf e la yemenita Tawakkul Karman.
La Liberia, per oltre 10 anni, è stata un inferno di guerra civile, miliziani armati, violenze di ogni genere, rapimenti ed arruolamenti di bambini soldato. Quello liberiano è stato uno dei “conflitti africani dei diamanti”, scientificamente e ferocemente gestito da Charles Ghankay Taylor, il signore della guerra di recente condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità dal Tribunale internazionale speciale per la Sierra Leone (perché è stato fra i protagonisti anche di quel conflitto).
"Grande sia il nostro potere" è innanzitutto una testimonianza scioccante di un percorso nato dalla disperazione e giunto alla meta della speranza, coinvolgente e commovente.
Non si tratta di un’autobiografia celebrativa. È semmai l’autoritratto molto umano di una donna con tante fragilità e debolezze, ma animata anche da energia e volontà indomabili.
La proposta ideale di Leymah non è solo per una soluzione pacifica dei conflitti, ma propugna la riconciliazione fra vittime e carnefici, come unica via ricostruire in modo solido e duraturo la coesione nella società civile.
Luciano Scalettari