06/01/2012
In quel giorno molte campane suonarono a festa. Era il primo marzo 1999: entrava ufficialmente in vigore la Convenzione internazionale sulla messa al bando delle mine antipersona, firmata a Ottawa (Canada) il 3 dicembre 1997. A distanza di quindici anni quel trattato conserva qualcosa di rivoluzionario: a tutti gli Stati membri proibisce di usare, produrre, commerciare mine antipersona e impone anche la distruzione di quelle presenti negli arsenali.
Un risultato che ai diplomatici pareva pura utopia è divenuto realtà grazie alla mobilitazione della società civile di tutto il mondo, sensibilizzata dalla Campagna internazionale contro le mine (che proprio nel '97 vinse il Premio Nobel per la pace). Negli anni '90 l'Italia era uno dei primi tre produttori mondiali di mine. Per arrivare alla messa al bando di queste armi è stato necessario svegliare l'opinione pubblica, intraprendere un percorso lungo, affascinate quanto accidentato e controverso.
«E' stato faticosissimo, soprattutto nella fase iniziale», racconta Nicoletta Dentico, fondatrice della Campagna italiana. «Ricordo ancora come un incubo la conferenza che si svolse a Roma nel dicembre del '93: c'erano più relatori che invitati. In quegli anni parlare di mine era un tabù: si procedeva a fatica, tra l'ostilità delle lobby produttrici, la durezza dei confronti in Parlamento e la reticenza di gran parte della stampa».
Eppure la Campagna riuscì a farsi strada, conquistando un sostegno trasversale: vi aderirono 40 associazioni con orientamenti diversissimi, dalla Caritas All'Arci. L'apporto del mondo cattolico fu decisivo. «Quasi ogni sera c'erano dibattiti nei circoli, nelle associazioni, nelle parrocchie di tutta Italia. La gente non era sorda al problema, ma reagiva, voleva impegnarsi, voleva che la realtà cambiasse. Sentirmi parte di questo cammino è stato e resta per me un dono, un privilegio straordinario».
Quel che resta di una cluster bomb. Foto: Reuters.
L'onda della Campagna contro le mine non si è arrestata, ma prosegue
tuttora in 90 Stati del mondo. «In molti Paesi – spiega Dentico – la
messa al bando delle mine è anche una palestra di democrazia e una
scuola di formazione politica, che porta a superare i contrasti interni.
Questo vale soprattutto per i territori in cui l'intervento delle
Nazioni Unite è più difficile, dal Laos alla Mongolia, dal Somaliland al
Sahara Occidentale».
Non solo: a Ottawa si è aperta la strada verso
nuovi orizzonti. Infatti il trattato sulle mine (cui recentemente ha
dichiarato di voler aderire anche la Finlandia, ultima Nazione europea
che opponeva resistenza) è servito da modello per un analogo testo sulle
cluster bomb, la Convenzione di Oslo, firmata nel dicembre 2008 dopo un
iter relativamente rapido. Attualmente il documento conta 111 Stati
firmatari e 66 membri (l'Italia lo ha ratificato a metà settembre).
Nuove sfide, nuove speranze, ma anche nuovi problemi. «Le lobby militari
e gli Stati produttori di armi non sono rimasti a guardare – spiega
Giuseppe Schiavello, attuale direttore della Campagna Italiana contro le
mine - Oggi la loro strategia consiste soprattutto nel partecipare ai
lavori col proposito di ostacolarli o ritardarli»".
L'ultimo tentativo è
recentissimo e ha come registi principali i diplomatici statunitensi. La
nazione guidata dal premio Nobel per la pace Obama finora non ha
aderito a nessuna convenzione sulle armi antipersona. Pochi giorni fa,
al meeting degli Stati membri del trattato di Ottawa tenutosi a Phnom
Penh (Cambogia), gli Usa hanno dichiarato di voler rivedere la loro
posizione riguardo alle mine (un dato che sembra incoraggiante). Peccato
che, a metà novembre, durante i lavori tenutisi alle Nazioni Unite di
Ginevra, gli stessi Usa abbiano cercato di indebolire fortemente la
Convenzione di Oslo con un "sesto protocollo" che, se approvato,
avrebbe reintrodotto alcuni tipi di cluster bomb. Ma c'è di più: la
manovra statunitense aveva l'appoggio di vari Stati membri del trattato
di Oslo, Italia compresa. Insomma, è andata in scena una specie di
'schizofrenia diplomatica collettiva', un'operazione che, fa notare
Schiavello, "rischiava di diventare un precedente giuridico
pericolosissimo e compromettere i risultati preziosi ottenuti col lavoro
di anni".
Grazie all'intervento di 50 Paesi e al coinvolgimento delle
reti umanitarie internazionali, la proposta è stata bloccata e ha
incassato un risoluto no: ambasciatori Usa "deeply disappointed"
("profondamente delusi"), respiro di sollievo delle Ong. Nessun
risultato, dunque, è acquisito una volta per tutte. Ora la Campagna
Italiana contro le Mine ha davanti nuovi obiettivi ambiziosi: "Stiamo
lavorando perché il trattato sulle cluster diventi una conquista sempre
più condivisa – spiega Schiavello - Inoltre vogliamo sostenere il
disegno di legge sul 'disinvestment' che impedirebbe alle banche di
supportare le aziende coinvolte nella produzione di mine e munizioni
cluster". Il ddl è stato presentato in Senato, ma la sua discussione è
ferma da un anno e mezzo.
Lorenzo Montanaro