17/04/2013
Dottor Palombi, il Programma DREAM promosso dalla Comunità di Sant’Egidio
si concentra sulla trasmissione verticale dell’HIV tra madri e figli: qual è in
generale la situazione dell’infezione da HIV in Mozambico e nell’Africa
sub-sahariana?
«La situazione della pandemia da HIV/AIDS
in Africa, seppur con alcune luci, resta ancora drammatica. Secondo l’ultimo
rapporto UNAIDS, su di un totale di 34 milioni di infetti nel mondo, ben 25,5
milioni, pari al 69%, appartengono a questo continente. Sono i Paesi
dell’Africa australe ad essere i più colpiti ed il Mozambico non fa eccezione.
Per dare un’idea dell’estensione del problema, ricordo che in Italia abbiamo
attualmente circa 150.000 persone colpite dall’infezione, pari ad una
percentuale dello 0–2%. In quel Paese la percentuale sale all’11% degli adulti,
ovvero 55 volte tanto. In pratica, un adulto su 9 richiede cure antivirali per
tutta la vita. Un aspetto particolarmente doloroso della malattia è costituito
dal fatto che la trasmissione dell’infezione avviene anche per via verticale,
ovvero durante la gravidanza, il parto e l’allattamento. Ogni anno in Africa
sono circa 1,4 milioni i casi di gravidanza in donne infette da HIV, con la
conseguente infezione di ben 350.000 neonati. In Mozambico ancora nel 2011
erano 27.000 i bambini infetti alla nascita».
Quali conseguenze ha la condizione di sieropositività
sulla salute della madre e del neonato? In che misura le madri sieropositive
sono a maggior rischio di mortalità da parto?
«Si stima che senza cure appropriate
solo la metà dei bambini che sono stati infettati per via verticale
raggiungeranno il secondo anno di vita. Una vera e propria strage. Accanto a
questo dato di per sé drammatico occorre poi aggiungere che le madri
sieropositive vedono aumentato il rischio di decesso in gravidanza e al parto a
valori inaccettabili. Basti pensare che oltre il 90% delle morti materne –
circa 250.000 all’anno – avviene in Paesi in Via di Sviluppo. Le donne africane
pagano il tributo più pesante dal momento che la metà di questi decessi si
verifica in territorio sub-sahariano. Si calcola che il contributo dell’AIDS a
questo fenomeno si collochi tra il 20 ed il 40%. In pratica,un decesso materno
su 3 è imputabile al virus dell’HIV. Possiamo immaginare poi le ricadute sull’intero
nucleo familiare: la donna è davvero la colonna della famiglia africana e la
sua scomparsa rappresenta un rischio concreto per la sopravvivenza di tutti gli
altri figli».
Quali sono le strategie terapeutiche
adottate nel progetto e quelle che si sono rivelate più efficaci nell’impedire
la trasmissione verticale madre-figlio?
«Il Programma DREAM ha concentrato molti dei suoi sforzi di
ricerca ed intervento sulla possibilità di prevenire sia la trasmissione
verticale che il decesso materno con un appropriato intervento farmacologico,
educativo e nutrizionale, che ha avuto grande successo e riconoscimenti dalla
comunità scientifica. Abbiamo dimostrato per primi che è possibile allattare al
seno sotto adeguata terapia farmacologica e alcuni nostri studi hanno
evidenziato una sostanziale riduzione della mortalità materna attraverso
l’utilizzo combinato di farmaci antivirali in gravidanza e per un anno dopo il
parto».
Dal punto di vista medico quali sono i risultati ottenuti
attraverso questo approccio in termini di riduzione della mortalità materna e
controllo dell’infezione?
«Posso affermare che la trasmissione madre-bambino ad un
anno, nell’esperienza di DREAM, si riduce dal 40% al 2-3% e i decessi materni
vedono una flessione pari ad almeno il 70% di quelli osservati in donne senza
terapia.
Quali sono i risultati sullo stato di salute complessivo
delle comunità coinvolte?
Un intervento olistico come il nostro, mirato dunque a una
completezza ed integrazione degli interventi, consente di acquisire risultati
che vanno oltre il semplice controllo della pandemia. Ad esempio l’educazione
sanitaria migliora i comportamenti in molti campi: dall’alimentazione alla cura
dei bambini, dalla consapevolezza dei meccanismi di malattia alla fiducia nelle
istituzioni sanitarie. DREAM finisce per avere un significativo e positivo
impatto anche su altre patologie, come ad esempio la tubercolosi o la
malnutrizione infantile. Abbiamo poi dimostrato come l’estensione della cura
rappresenti un vero e proprio intervento preventivo, capace di ridurre in modo
sostanziale nuovi casi di infezione».
Quali sono i possibili sviluppi del Programma e il suo
impatto a lungo termine?
«Il valore strategico del Programma DREAM consiste nel
rappresentare un modello di successo che combina efficacia e sostenibilità.
Adesso occorre trasfonderlo all’intero Sistema Paese in Mozambico. Si tratta di
una operazione complessa che richiede di estendere e moltiplicare il modello
senza degradarne le qualità. Sono convinto che il supporto di MSD sarà un contributo
straordinario per realizzare questa operazione, con evidenti ricadute sulle
capacità professionali del personale sanitario, sulla possibilità di accesso a
cure efficaci per la popolazione rurale e periferica, per la protezione di una
intera generazione di giovani madri e dei loro figli in una delle aree più
colpite dell’Africa sub-sahariana».
Come nasce la partnership con MSD?
«La partnership con MSD è di lunga data e nasce
dall’attenzione che l’azienda ha dedicato sin dal 2005 al Programma DREAM.
Allora il nostro intervento in Africa aveva bisogno di molto personale
espatriato che formasse e seguisse i primi centri in Mozambico e Malawi ed è su
questo fronte che abbiamo potuto collaborare per la formazione dei formatori.
Anche grazie al contributo MSD posso affermare che una delle chiavi della
sostenibilità di DREAM oggi è costituita dal fatto che la gestione dei centri
di salute e dei laboratori è ormai interamente affidata a personale africano,
mentre i nostri espatriati, su base totalmente volontaria, mantengono funzioni
di monitoraggio e coordinamento».
Alberto Picci