Islam, una minaccia per i cristiani dell'Africa

21/02/2013
Bauchi (Nigeria): i resti di un'autobomba usata da Boko Haram per un attentato contro i cristiani (Reuters).
Bauchi (Nigeria): i resti di un'autobomba usata da Boko Haram per un attentato contro i cristiani (Reuters).

Il cristianesimo africano, come raccontiamo in altra parte di questo Dossier ("Un polmone spirituale per l'umanità") vive una stagione di forte e vivace crescita. Forse non per caso, questa stagione è anche funestata da uno scontro con l'islam radicale che, per violenza e crudeltà, ha pochi precedenti storici.

Per provare a capire le ragioni di questa crisi, che dura ormai da almeno due decenni, possiamo cominciare col ricordare in modo sintetico alcune condizioni di fondo. Intanto, l'islam è profondamente radicato in Africa. I primi musulmani arrivarono in Etiopia, quando l’islam non era ancora affermato nella stessa penisola arabica, proprio per sfuggire alle persecuzioni degli arabi pagani. Il che naturalmente è anche la prima dimostrazione di una vicinanza geografica che ha poi sempre avuto molta importanza dal punto di vista delle reciproche influenze.

Già nel 709, con la sola eccezione della città-fortezza di Ceuta, le armate islamiche avevano il controllo dell’intero Nord-Africa e nel 710, da lì, lanciarono poi l’offensiva verso la penisola iberica. La religione e la cultura islamica, oltre naturalmente al colonialismo arabo, non meno aggressivo di quello europeo, hanno contribuito in modo significativo a definire l’Africa per ciò che essa è.

Oggi i musulmani sono tra il 45 e il 50% di tutti gli africani (mentre i cristiani sono tra 30 e 35%), il che significa che vive in Africa il 25% di tutti i musulmani del mondo.

Questo ci serve anche per riconoscere che lo scontro tra queste due grandi religioni, esuberanti nei numeri e facilmente strumentalizzabili a fini politici, in un certo senso è "normale". O comunque era prevedibile, e l'errore è stato guardare all’islamismo radicale e, poi, al terrorismo islamico come a un fenomeno del Medio Oriente, un fenomeno in qualche modo chiuso in una regione, definito da una serie di limiti geografici e culturali. Naturalmente il forte radicamento storico dell’islam in Africa non sarebbe certo bastato, da solo, a generare quella fioritura di violenza di cui in questi decenni abbiamo avuto testimonianze quasi quotidiane. Tanto più che l’islam africano ha storicamente caratteristiche proprie (l'influenza sufi, per esempio, o la perdurante influenza dei culti locali) che lo rendono poco incline all’estremismo religioso. Serviva altro. Ma che cosa, in particolare?

Su questo tema  la Rand Corporation un think tank americano fondato nel 1946 con il contributo del Dipartimento della Difesa, ha prodotto nel 2010 un lungo studio destinato, appunto, alle Forze Armate americane.

E' uno studio particolarmente interessante, per la qualità dell'approccio e anche per l'origine. I fattori che favoriscono l’insediamento dei gruppi estremisti e la diffusione del terrorismo sono così definiti:
1. Governi deboli o Stati collassati;
2. centri di potere e influenza alternativi a quello dello Stato (clan tribali, signori della guerra, cartelli criminali, gruppi separatisti);
3. una forte economia informale, per esempio quella ben rappresentata dall’hawala, i trasferimenti di denaro che non passano per le banche (solo le rimesse dei somali emigrati verso la Somalia valgono almeno 1 miliardo di dollari l’anno) o dal lavoro nero, che riguarda più del 50% dei lavoratori in Etiopia e quasi il 40% in Kenya;
4. confini poco e male controllati;
5. un facile accesso alle armi.

Nessuno di questi fattori è estraneo all’Africa che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Tutti sono inscrivibili nella generale crisi che ha investito il Continente nel periodo successivo all'entusiasmo per l'indipendenza e la fine del colonialismo.

Tutti questi fattori, per quanto altamente infiammabili, avevano bisogno di un innesco, di un fattore dterminante. Il rapporto Rand ne cita due: il colpo di Stato militare che nel 1989 portò al potere in Sudan il generale Al Bashir e il Fni (Fronte nazionale islamico) di Hassan al Turabi; e il tracollo della dittatura di Siad Barre in Somalia nel 1991. Personalmente, volendo seguire questa linea, ricorderei almeno anche la guerra civile in Algeria a cavallo del 1990-1992 dopo l’annullamento delle elezioni amministrative vinte dal Fis (Fonte islamico di salvezza nazionale). Nello stesso periodo sbarca in Africa, e precisamente in sudan, Osama bin Laden.



Naturalmente non possiamo seguire passo passo gli ultimi vent'anni della storia africana. Possiamo però dire che l'islam radicale, e ancor più l'islam violento del terrorismo, hanno senza sosta cercato di insinuarsi in tutte le fessure che le crisi continentali di volta in volta aprivano nel tessuto sociale di questo o quel Paese. Strategia collaudata, visto che già negli anni Quaranta i Fratelli Musulmani si erano preoccupati di inviare, dall'Egitto dov'erano stati fondati, piccoli gruppi di attivisti in Sudan per fare agitazione politica e religiosa tra i giovani di quel Paese che erano rientrati in patria dopo aver studiato nelle università del Cairo.

Fulvio Scaglione

Gli attacchi contro i cristiani, particolarmente frequenti ormai in Nigeria e in Kenya, rientrano non solo nella strategia di reazione a quella che Osama bin Laden definì la "crociata" (cristiana, occidentale, capitalistica, consumistica, ecc. ecc.) contro l'islam. I gruppi islamisti, che hanno subito e patito la reazione messa in atto dai diversi Governi nell'ambito della "guerra al terrore" lanciata dall'amministrazione Bush dopo l'attentato alle Torri Gemelle di New York, subendo molte perdite e perdendo molta della loro capacità operativa, hanno cominciato a cercare la saldatura con i movimenti locali, spesso in lotta con i Governi per ragioni assai diverse dallo scontro islam - cristianesimo.

Il patto è chiaro: i movimenti locali offrono basi operative e radicamento presso la popolazione locale; i gruppi islamici, soprattutto quelli dell'Aqmi (Al Qaeda per il Maghreb islamico), contribuiscono con la loro esperienza nelle tecniche del terrorismo.

E' successo in Somalia, dove la politica dei clan si è saldata con l'islamismo fino a produrre gli shaabab, i "giovani" musulmani radicali che bloccano qualsiasi tentativo di soluzione pacifica e istituzionale alla pluridecennale crisi del Paese. E' successo in Nigeria, dove i guerriglieri dell'Aqmi, spostandosi verso Sud per sfuggire alla reazione delle autorità algerine, hanno incontrato i miliziani di Boko Haram, i cui attentati contro i cristiani hanno infatti acquisito ulteriore crudele efficacia. E' successo nel Mali, dove la lotta dei tuareg per l'indipendenza avrebbe avuto successo, se non fosse intervenuta l'operazione militare della Francia, grazie anche al contributo delle formazioni dell'estremismo islamico armato, irrobustite dai maliani rientrati dalla Libia dopo il crollo di Gheddafi.

Nel Mali, come già prima in Somalia, si stava realizzando il peggiore degli scenari: il radicalismo islamico non solo si era alleato alla lotta dei tuareg ma l'aveva pian piano subornata, piegandola ai propri fini.

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