11 luglio 2010 - XV domenica Tempo ordinario


Chi è il mio prossimo?

«Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Come per dire: cosa devo fare per essere felice? La domanda posta dal dottore della Legge sfonda il muro della presunzione di chi pensa che a forza di norme sia possibile trovare risposta al senso della vita. Amare Dio sopra ogni cosa, amare il prossimo come sé stessi, questo il comandamento per ereditare la felicità. La legge trova la sua sintesi perfetta nello svolgimento ordinato della vita di ogni uomo che provocata dal futuro avanza nel presente a ritmo dell’amore, verso l’Amore. Dio è primo, tuttavia nella esperienza umana Dio si svela dopo gli uomini, dentro gli uomini.
Il bambino incontra prima il volto della madre. Sarà lei a presentargli Dio che, primo come assoluto, nell’esperienza umana arriva attraverso gli altri. Ecco perché non posso amare Dio che non vedo se non amo gli altri che mi stanno accanto (cf. 1Gv 4,20). Il comandamento va oltre e racconta di un amore possibile, dato all’altro perché originato da un sé riconosciuto e riconoscibile: ama l’altro come te stesso, a dire che nessuno può dare agli altri quello che non ha. Posso amare se mi accetto, se mi voglio bene, se sono in armonia con me stesso, se conoscendomi riesco anche a perdonarmi. In tal caso amare Dio passa attraverso il sé, amare l’altro ugualmente è dono di sé.
Ma chi è il mio prossimo? Il Maestro non sfugge all’interrogativo e mentre riannoda il passato della legge, consegna il comandamento nuovo, forte di un amore uguale al suo, un amore capace di compassione. La parabola del samaritano è la tragedia di un inganno risolto grazie alla gratuità. Il sacerdote e il levita passano oltre colui incappato nel dolore, come tanti che parlano di giustizia e di fraternità, ma non la praticano. Un diverso per razza e religione si lascia invece provocare dal dolore innocente e riconosce nell’afflitto l’umano che gli appartiene. La conseguenza è la pietà, che muove il miracolo dell’abbondanza in tempo di carestia.
Il Maestro porta all’estrema conseguenza la sua rivoluzione. Chi è il prossimo? Colui che ha bisogno, che è aggredito, lasciato da solo agonizzante. Ovvio, chi altro. Ma la domanda del Maestro sconvolge: chi è il prossimo dell’aggredito? Chi è il prossimo del povero? E così facendo capovolge i ruoli dei protagonisti, anzi rende entrambi ugualmente protagonisti: il mio prossimo non è solo chi riceve perché è nel bisogno, ma anche chi dona è prossimo di chi è nel bisogno e gli rende la gioia di servirlo.
Forse c’è grande consolazione nel rendersi disponibili verso quanti sono nel dolore, ma è esaltante superare le barriere perché gli altri amandomi scoprano nel dono le frontiere splendenti della gioia.


Luca (10,25-37)

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto».

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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