Luca (16,19-31)
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, strìngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Tra le braccia di Dio
«Aumenta la nostra fede» (Lc 17,6). I discepoli di ogni tempo vivono provocati dall’esperienza: la gioia e il dolore di ogni avvenimento, la fatica di crescere, la fedeltà e il tradimento chiedono risposte capaci di coniugare il sì credente con la concretezza della propria storia. Ogni azione, mossa nel quotidiano, è impegno per affermare il proprio essere uomini, collocato in un qui e in un’ora nella ricerca della maturità personale e nell’equilibrio di avere i piedi ben piantati al suolo e lo sguardo proteso dinanzi, al futuro.
Impresa non facile, per chi ha scelto il Maestro, quella di essere coerente con la parola data alla sua Parola. Spesso il discepolo ripete a sé stesso quello che l’Apostolo diceva: «So il bene che debbo fare e mi ritrovo a fare il male che non voglio fare» (Rm 7,19), perché il cuore è pronto ma la carne è debole. Contraddizione tra la consapevolezza del proprio essere e il dover essere. «Aumenta la mia fede », allora, è invocazione di chi cerca la forza di restare fedele, malgrado il turbinio degli avvenimenti, e di intercettare anche nell’oscurità del significato la luce che permette di superare ogni prova. «Aumenta la nostra fede» è una richiesta per comprendere il significato delle cose quando le risposte vengono a mancare e nonostante il dolore delle prove, il sapore cocente delle sconfitte, riuscire ad abbandonarsi alla volontà di Dio che vince il mondo.
La fede è scegliere per sé la volontà di chi è forte, certezza di sapersi fidare di chi ha promesso che «Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4). È la fede che rende visibile in percorsi tortuosi una possibile via d’uscita, che arma il braccio del debole rendendolo forte in battaglia. Custodire la fede è farsi quotidianamente sorreggere dalla speranza di non essere mai delusi dalla Parola di colui che ci ha promesso di non lasciarci soli, di non avere paura.
Chiunque abbia fede e creda che Dio sia dalla sua parte, potrà chiedere che gli venga aumentata la fede. Egli sa bene che avere fede è sapere che si è in braccio a Dio, sicuri del suo amore, e questo basta. Altro, invece, è chiedere di essere custoditi nella propria fede, protetti dall’attacco dei nemici di ogni tempo, pronti ad aggredire i giusti per quello in cui credono, per quello che testimoniano.
E per custodire la fede è necessario non vergognarsi mai del Vangelo ricevuto, mai «della testimonianza da rendere al Signore nostro... ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo» (2Tm 1,8). Un briciolo soltanto di fede, un granellino di abbandono in Dio, muove un coraggio inaudito, cambia il mondo. Anzi, la fede è proprio la vittoria che sconfigge il mondo (cfr 1 Gv 5,4).
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Luca (16,19-31)
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe [...]. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”».
Il paradiso non si compra
«Tra noi e voi è stabilito un grande abisso» (Lc 16,26). Tra il ricco e il povero Lazzaro la distanza sembra incolmabile, difficile farli incontrare, eppure la vita li aveva messi vicini, uno di fronte all’altro. Il banchetto lautamente preparato, imbandito di vergogna e di insensibilità, saziava chi, con la pancia piena, rimaneva sordo al lamento del povero in cerca di molliche ai piedi della tavola.
Nemmeno una lasciata per compassione: l’ingordigia non sente ragioni, anche i cani a leccare le ferite del disperato. Un grande abisso tra chi ha tutto e chi niente, tra chi diventa sempre più ricco e chi, per ingiustizia, si sente abbandonato da Dio e dagli uomini, perché vede la sua acqua rubata, il suo pane divorato, i suoi figli venduti, la sua terra occupata.
Il ricco e il povero, che il Maestro mette di fronte al giudizio dei farisei, raccontano la storia dell’umanità divisa in sé stessa tra chi crede di dovercela fare da solo contro gli altri e chi subisce. Dimentica il ricco dove il Padreterno posa il suo sguardo, quale predilezione egli dichiari per chi ha fame e sete: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati» (Lc 6,21). Predilezione che supera il tempo e rende giustizia a chi ha subìto il giogo iniquo dei potenti: «Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (Lc 16,22).
Mai il Maestro di Galilea fu così diretto nel descrivere il futuro del povero in paradiso e quello del ricco egoista all’inferno, dove la futura condanna sta a giudicare un presente corrotto, impossibile da accettare. Agli occhi di Dio è un peccato mortale che milioni di esseri umani siano privati del sostentamento del cibo, mentre una piccola parte del mondo consuma, spreca e getta nell’immondizia le risorse necessarie a tutti. Il povero Lazzaro, pertanto, è l’icona di una condizione che chiama in giudizio economie diaboliche che rendono invivibile la Terra. Dio non fa sconti a quanti non sono capaci, sia pure con l’iniqua ricchezza, di rendere meno dura la vita dei poveri. Egli non ammette repliche a quanti non danno spazio alla compassione: «cesserà l’orgia dei buontemponi» (Am 6,7).
A differenza dell’amministratore disonesto, che scoperto nel suo limite si è attrezzato per il futuro, il vizio di fondo del ricco egoista è di credere che il potere economico possa garantirgli la vita eterna. Il paradiso è altra cosa, non si compra nelle banche, nei titoli o nelle proprietà. Il regno è per chi lo cerca, è per chi sa che il vero tesoro è quello del cielo dove né ruggine, né ladro potranno mai portarlo via. C’è speranza anche per i ricchi, se la compassione vince e i poveri Lazzaro da spettatori del banchetto potranno sedersi alla tavola della condivisione.
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Luca (16,1-13)
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore [...] chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, sièditi subito e scrivi cinquanta”. [...] Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza».
Potenza del condividere
«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto» (Lc 16,10). Il discepolo del Maestro accoglie la sua parola, non ne potrà fare a meno. Le sue stesse parole saranno condizionate dalla Parola, tanto che chi lo ascolterà saprà riconoscerlo. Fedele alla sua promessa, il discepolo si rende conto che dovrà attraversare la storia e lottare contro l’attrazione del mondo che gioca ad asservire ognuno all’idea dominante, quella utile a garantire l’interesse privato. Tentazione che propone altri modi di vivere, ma il discepolo conosce il senso e l’orientamento della vita, gli deriva dall’insegnamento ricevuto.
Dal Maestro di Galilea ha imparato che non si può servire Dio e mammona, sa bene che scegliere la strada della verità è resistere a ogni menzogna, a ogni compromesso con le regole del mondo e orienta il suo futuro sull’orizzonte di Dio, il suo presente in ascolto del Verbo, perché «Nessun servo può servire due padroni» (Lc 16,13).
La parabola dell’amministratore infedele racconta un paradosso: scoperto nel suo peccato, prossimo a essere cacciato via, l’amministratore scopre che può mettere perfino il suo limite a profitto e a servizio del suo futuro. Non fa più solo i conti con i capitali detratti al padrone, ma costruisce la sua salvezza sulla solidarietà con nuovi compagni che potranno garantirgli una via d’uscita.
La disonesta ricchezza nel paradosso del racconto, la scaltra amministrazione del protagonista non sono un esempio da seguire, vanno oltre il fatto, dentro l’avvenimento: ognuno di noi amministra ciò che non è suo e comunque è in debito con il Padrone. Scoperti, nudi dinanzi a Lui, vale la pena recuperare complicità di affetti in uguali compagni di precarietà e scambiarsi la vita per quello che si ha, per quello che si è, perché è giusto organizzare la speranza insieme: «Procuratevi amici con l’iniqua ricchezza, perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9).
Tutto ciò che abbiamo è una risorsa e una opportunità: la nostra intelligenza, le sostanze materiali, le risorse economiche e la posizione sociale. Tutto è relativo rispetto al Regno, ma tutto può diventare potente opportunità se condiviso, se malgrado la storia di peccato, l’inevitabile tentazione del possesso, si rischia la compassione e la solidarietà.
Diversamente, il Padre, che solleva l’indigente dalla polvere, sarà severo con chi ha voltato le spalle alla condivisione e alla giustizia. L’amministratore corrotto certo non è un esempio di corretta gestione economica, ma è la storia di chi, conoscendo anche la propria miseria, con l’amore sa vincere la propria prigionia: «molto ti è perdonato, perché molto hai amato» (Lc 7,47).
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Luca (15,1-32)
In quel tempo, Gesù disse: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: ”Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. [...] Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
La tenerezza del Padre
«Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita. Era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32). La festa inizia il giorno dell’incontro: lasciata alle spalle la morte causata dal peccato, la vita ritrova la sua pienezza e la gioia incontenibile dell’abbraccio del Padre.
Il figlio aveva chiesto in tempo non opportuno eredità e autonomia, il padre, che ama la libertà, pur soffrendo, aveva concesso il suo assenso. Il paese lontano è posto in alternativa alla casa paterna, lontano non solo per distanza ma per condizione e, come vicino al sole si avverte un tiepido calore, lontano dal Padre assale il freddo mortale.
La festa sono le braccia al collo, la tenerezza di un padre che aspetta con ansia di gridare il ritorno del figlio, di mettergli al dito l’anello della nuova compagnia, la veste della gioia a coprire la nudità dell’abbandono. Lontano, mercenari e prostitute tra baldorie fugaci e amori rubati ingannano il figlio presuntuoso di forze non sue, di sostanze mai guadagnate, dilapidando il patrimonio, la speranza.
Il peccato è girare le spalle alla nostra origine e guardare in direzione opposta come fece Adamo, come fecero a Babele. La carestia è la condizione, il risultato del voltare le spalle alla casa paterna. Soli in un percorso senza senso si cerca una via d’uscita per ritrovare la strada, ma nella terra del peccato i porci di ieri e di oggi non spartiscono il proprio bottino, altro serve per ritrovare vita.
Dalla morte è possibile uscire solo risuscitando e allora: «Mi leverò e andrò da mio padre» (Lc 15,18). Mi leverò, appunto, che è come dire mi risolleverò, risusciterò dalla morte presente causata dal tradimento dell’origine e guarderò altrove, riacchiapperò l’orizzonte perso il giorno in cui decisi di andare lontano dal Padre. Dove, se non in Dio, riposa l’anima mia? Ci si rimette in cammino verso casa, pronti a raccontare la nostra sventurata storia e a chiedere perdono, perché meglio essere servi in casa del Padre, che figli alla tavola di farabutti. Il pentimento è il principio del ravvedimento, che dice vedere meglio, nella giusta direzione, per ritrovare il senso perduto.
Il figlio ancora lontano è sorpreso dalla tenerezza del padre che di corsa gli va incontro e lo abbraccia, lo stringe al petto, gli frena il dovuto dire e organizza la festa decisiva del riscatto. Mi commuove la corsa del padre che nello spazio intermedio tra la mia condizione e il definitivo approdo viene a riprendermi. La corsa del padre, le braccia al collo sono l’incarnazione del Figlio; la compassione del padre è la croce di Cristo, è la sua risurrezione. Tenerezza di un Dio diverso che perdona perché ama, che scioglie la corsa per abbracciarmi, nonostante il mio peccato.
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Luca (14,25-33)
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
La felicità della croce
«Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo» (Lc 14,27). Il tempo di vacanze è ormai alle spalle: si ritorna al lavoro di sempre, perlomeno si spera. La crisi economica non ha risparmiato fabbriche, piccole e medie imprese che davano lavoro a tanta gente, che ora spera in una ripresa. Speranza che anima il cuore dei giovani, i quali consumano le ultime ore di libertà estiva prima di varcare la soglia delle aule scolastiche. Speranza di futuro, di un mondo che si apre davanti a loro potendo offrire spazio, legalità, lavoro.
Si fa fatica, tuttavia, a coniugare il tempo presente con la parola giustizia, mentre la politica cerca risposte al disagio di chi ha perso tutto e chi ha risorse, molto spesso, le tiene ben strette. Eppure, la parola di Dio scende provocatrice nelle piaghe di questo tempo e grida l’urgenza di fare scelte adeguate al desiderio di sequela.
Un grido di sconcertante attualità, sia per chi soffre la mancanza di giustizia, sia per chi è causa del dolore innocente. Gesù si fa spartiacque tra chi pensa di accaparrarsi il mondo vigliaccamente e chi subisce il peso dell’inganno dei potenti: «perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc 18,14). Il Maestro di Galilea, infatti, offre la sua guida a coloro che sono disponibili a caricarsi di croce durante il tragitto.
Di che croce si parla? Certo la precarietà del vivere è di per sé stessa una croce e sicuramente nessuno può pensare che a Gesù faccia piacere la sofferenza dei suoi fedeli, a Cristo importa quanto si è disponibili a rischiare per lui, tanto da decidere che gli affetti personali, i beni materiali, i riconoscimenti sociali siano secondi alla sua Parola. Se scegliere Cristo, piuttosto che il mondo, provoca dolore, è inevitabile che per seguire il Maestro bisogna portare la croce. Ancora di più è crocifissa la scelta del discepolo che deve fare i conti con la mentalità dominante del mondo, quella che premia i furbi, i corrotti, i mentitori, i funambolici venditori di fumo.
È crocifissa la strada di chi sceglie la rettitudine come sistema, la coerenza con i propri ideali come abito da indossare. La scelta del discepolo è impegnativa, controcorrente, difficile da capire e da accettare in un mondo che trova soddisfazione nell’effimero, è una scelta che richiede passi necessari anche in vie tortuose.
La proposta del Maestro è esigente: seguirlo è impresa non facile, ma rende felici. E sebbene la croce del distacco costi la fatica del percorso, vale la pena caricarsi del peso della giustizia, della croce soave del discepolato per essere alternativi al mondo e forse primi, non di certo in terra di peccato, ma di sicuro nel Regno di domani.
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