5 settembre 2010 - XXIII Tempo ordinario

 
Luca (14,25-33)

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». 

La felicità della croce

«Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo» (Lc 14,27). Il tempo di vacanze è ormai alle spalle: si ritorna al lavoro di sempre, perlomeno si spera. La crisi economica non ha risparmiato fabbriche, piccole e medie imprese che davano lavoro a tanta gente, che ora spera in una ripresa. Speranza che anima il cuore dei giovani, i quali consumano le ultime ore di libertà estiva prima di varcare la soglia delle aule scolastiche. Speranza di futuro, di un mondo che si apre davanti a loro potendo offrire spazio, legalità, lavoro.

     Si fa fatica, tuttavia, a coniugare il tempo presente con la parola giustizia, mentre la politica cerca risposte al disagio di chi ha perso tutto e chi ha risorse, molto spesso, le tiene ben strette. Eppure, la parola di Dio scende provocatrice nelle piaghe di questo tempo e grida l’urgenza di fare scelte adeguate al desiderio di sequela.

    Un grido di sconcertante attualità, sia per chi soffre la mancanza di giustizia, sia per chi è causa del dolore innocente. Gesù si fa spartiacque tra chi pensa di accaparrarsi il mondo vigliaccamente e chi subisce il peso dell’inganno dei potenti: «perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc 18,14). Il Maestro di Galilea, infatti, offre la sua guida a coloro che sono disponibili a caricarsi di croce durante il tragitto.

    Di che croce si parla? Certo la precarietà del vivere è di per sé stessa una croce e sicuramente nessuno può pensare che a Gesù faccia piacere la sofferenza dei suoi fedeli, a Cristo importa quanto si è disponibili a rischiare per lui, tanto da decidere che gli affetti personali, i beni materiali, i riconoscimenti sociali siano secondi alla sua Parola. Se scegliere Cristo, piuttosto che il mondo, provoca dolore, è inevitabile che per seguire il Maestro bisogna portare la croce. Ancora di più è crocifissa la scelta del discepolo che deve fare i conti con la mentalità dominante del mondo, quella che premia i furbi, i corrotti, i mentitori, i funambolici venditori di fumo.

    È crocifissa la strada di chi sceglie la rettitudine come sistema, la coerenza con i propri ideali come abito da indossare. La scelta del discepolo è impegnativa, controcorrente, difficile da capire e da accettare in un mondo che trova soddisfazione nell’effimero, è una scelta che richiede passi necessari anche in vie tortuose.

    La proposta del Maestro è esigente: seguirlo è impresa non facile, ma rende felici. E sebbene la croce del distacco costi la fatica del percorso, vale la pena caricarsi del peso della giustizia, della croce soave del discepolato per essere alternativi al mondo e forse primi, non di certo in terra di peccato, ma di sicuro nel Regno di domani.

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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