12 settembre 2010 - XXIV Tempo ordinario

 
Luca (15,1-32)

In quel tempo, Gesù disse: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: ”Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. [...] Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

La tenerezza del Padre

«Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita. Era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32). La festa inizia il giorno dell’incontro: lasciata alle spalle la morte causata dal peccato, la vita ritrova la sua pienezza e la gioia incontenibile dell’abbraccio del Padre.
Il figlio aveva chiesto in tempo non opportuno eredità e autonomia, il padre, che ama la libertà, pur soffrendo, aveva concesso il suo assenso. Il paese lontano è posto in alternativa alla casa paterna, lontano non solo per distanza ma per condizione e, come vicino al sole si avverte un tiepido calore, lontano dal Padre assale il freddo mortale.
La festa sono le braccia al collo, la tenerezza di un padre che aspetta con ansia di gridare il ritorno del figlio, di mettergli al dito l’anello della nuova compagnia, la veste della gioia a coprire la nudità dell’abbandono. Lontano, mercenari e prostitute tra baldorie fugaci e amori rubati ingannano il figlio presuntuoso di forze non sue, di sostanze mai guadagnate, dilapidando il patrimonio, la speranza.

    Il peccato è girare le spalle alla nostra origine e guardare in direzione opposta come fece Adamo, come fecero a Babele. La carestia è la condizione, il risultato del voltare le spalle alla casa paterna. Soli in un percorso senza senso si cerca una via d’uscita per ritrovare la strada, ma nella terra del peccato i porci di ieri e di oggi non spartiscono il proprio bottino, altro serve per ritrovare vita.

    Dalla morte è possibile uscire solo risuscitando e allora: «Mi leverò e andrò da mio padre» (Lc 15,18). Mi leverò, appunto, che è come dire mi risolleverò, risusciterò dalla morte presente causata dal tradimento dell’origine e guarderò altrove, riacchiapperò l’orizzonte perso il giorno in cui decisi di andare lontano dal Padre. Dove, se non in Dio, riposa l’anima mia? Ci si rimette in cammino verso casa, pronti a raccontare la nostra sventurata storia e a chiedere perdono, perché meglio essere servi in casa del Padre, che figli alla tavola di farabutti. Il pentimento è il principio del ravvedimento, che dice vedere meglio, nella giusta direzione, per ritrovare il senso perduto.

    Il figlio ancora lontano è sorpreso dalla tenerezza del padre che di corsa gli va incontro e lo abbraccia, lo stringe al petto, gli frena il dovuto dire e organizza la festa decisiva del riscatto. Mi commuove la corsa del padre che nello spazio intermedio tra la mia condizione e il definitivo approdo viene a riprendermi. La corsa del padre, le braccia al collo sono l’incarnazione del Figlio; la compassione del padre è la croce di Cristo, è la sua risurrezione. Tenerezza di un Dio diverso che perdona perché ama, che scioglie la corsa per abbracciarmi, nonostante il mio peccato.

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Rito romano

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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