11 settembre 2011 - XXIV del Tempo ordinario


Matteo (18,21-35)


Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A questo proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciàti i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. [...] Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito».


Il principio del perdono

«Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?» (Mt 18,21). La domanda che Pietro pone al Maestro è la stessa che tante volte poniamo a noi stessi, quando ci sentiamo incapaci di perdonare per l’ennesima volta chi ci ha fatto del male. E quasi a giustificare il nostro desiderio di vendetta, assolviamo noi stessi perché, come Pietro, siamo convinti di essere abbastanza magnanimi, se capaci di perdonare «fino a sette volte» (Mt 18,21). Un numero simbolico che nella storia della salvezza ricorre più volte a indicare completezza, perfezione: sette sono i doni dello Spirito, sette le virtù (quattro cardinali e tre teologali) e Gesù sfama la folla moltiplicando cinque pani e due pesci. Ma soprattutto, in riferimento al tempo, il numero sette indica un lungo periodo: Dio creò il mondo in sette giorni (cfr. Gn 2,1-2).

Eppure, alla domanda di Pietro: «Fino a sette volte?» (Mt 18,21), il Maestro risponde: «Fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), come a dire sempre, per l’eternità, opponendo al principio della vendetta, «occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24), il principio del perdono illimitato. E per meglio spiegarsi racconta la parabola del re che condona a un suo servo un debito di diecimila talenti. Una cifra enorme che mai il servo avrebbe potuto restituire, come infinito è il nostro debito nei confronti di Dio, che «non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe» (Sal 103,10).

Un Dio Padre che per amore degli uomini sacrifica sulla croce il suo Figlio unigenito, che nemmeno ci chiama servi, ma amici. E se non c’è amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici (cfr. Gv 15,13), come possiamo noi, debitori di così tanta misericordia, comportarci come il servo della parabola? Perdonato dal suo re, non ebbe compassione di un suo compagno che gli doveva soltanto cento denari, una cifra irrisoria, rispetto al suo debito, come irrisori sono i torti, sia pure gravi, che subiamo rispetto al peccato che Cristo ha espiato per noi.

«Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?» (Sir 28,3), e come possiamo pregare: «Padre nostro, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», se non siamo capaci di volgere l’altra guancia a chi ci percuote?

Certo, perdonare fino a settanta volte sette non è facile, né significa non chiedere giustizia, ma come sempre il Maestro ci chiama a essere perfetti come il Padre celeste (cfr. Mt 5,48) e in questa tensione a imparare da lui, che è mite e umile di cuore, a liberarci dal rancore che coviamo dentro per sentire la carezza di Dio che sempre comprende e perdona i nostri limiti.

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