Matteo
(16,13-20)
In quel tempo, Gesù,
giunto nella regione
di Cesarèa di Filippo,
domandò ai suoi
discepoli: «La gente, chi
dice che sia il Figlio
dell’uomo?». Risposero:
«Alcuni dicono Giovanni
il Battista, altri Elìa, altri
Geremìa o qualcuno dei
profeti». Disse loro: «Ma
voi, chi dite che io sia?».
Rispose Simon Pietro:
«Tu sei il Cristo, il Figlio
del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato
sei tu, Simone, figlio di
Giona, perché né carne
né sangue te lo hanno
rivelato, ma il Padre mio
che è nei cieli. E io a te
dico: tu sei Pietro e su
questa pietra edificherò
la mia Chiesa e le
potenze degli inferi non
prevarranno su di essa».
Una risposta di fede
«Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
La singolare domanda del Maestro
ai discepoli è una domanda
provocatoria che ci induce a riflettere in prima
persona sulla nostra fede. A Gesù non interessa
sapere cosa dica la gente del Figlio
dell’uomo, non gli interessano le opinioni
generiche sul suo conto. Che alcuni dicessero
che era il Battista o un qualsiasi profeta poco
gli importava, ma cosa pensassero di lui i
suoi discepoli, e chi nel tempo avrebbe deciso
di seguirlo, questo sì, gli stava a cuore.
La chiamata alla salvezza è indubbiamente
universale per rendere cattolico l’universo degli
uomini e formare nella sua Chiesa il popolo
di Dio. Tuttavia, se la chiamata è universale
il percorso che ognuno deve compiere per
entrare a far parte dell’unico popolo di Dio
non può essere un percorso massificato,
dettato dalla tradizione, dall’appartenenza a
un gruppo, a una nazione, a una cultura. Il
Maestro vuole che ognuno compia il suo singolare
percorso per rispondere in piena coscienza
alla sua domanda: «Tu, chi dici che io sia?»,
come per dire: «Chi sono io per te, quando devi
scegliere tra la mia Parola e le parole del
mondo? Quando sei felice e quando soffri?».
Essere credenti, sebbene implichi il far parte
di un unico “corpo” di cui Cristo è il capo e
noi le membra, non significa perdere la propria
individualità nel rapporto intimo con il
Signore. Alla domanda del Maestro non possiamo
rispondere con risposte precostituite,
con concetti dogmatici che a volte nemmeno
comprendiamo, né possiamo delegare
ad altri la responsabilità di rispondere per
noi di fronte ai problemi fondamentali
dell’esistenza.
Ognuno deve rispondere da
solo alla chiamata del Signore o Cristo sarà
sempre per alcuni un grande uomo, per altri
un profeta. E anche per chi, credendo di credere,
risponde che Cristo è il Figlio di Dio, se
la sua risposta non è sgorgata dal cuore, dal
travaglio interiore di chi s’interroga sulla propria
fede, anche per lui rimarrà un martire
inchiodato a una croce, incapace di dare risposte
al dolore del mondo. Credere in Gesù
di Nazaret significa credere davvero nel Risorto
che, sconfitta la morte, ha promesso
che sarebbe rimasto accanto a noi fino alla fine
del mondo.
La risposta, che Gesù vuole da noi, è dunque
una risposta difficile ma decisiva che ci
cambia l’orizzonte della vita. Certo non può
essere una risposta immediata, scaturita
dall’emozione di un momento, ma implica
un lungo percorso fatto di inciampi e di cadute.
Eppure, chi nell’ora della prova, nonostante
il dolore, sa pregare con fede:
«Signore, il tuo amore è per
sempre» (Sal 138,8) ha riconosciuto
in Cristo «il Figlio del Dio vivente
» (Mt 16,16), che mai abbandona
l’opera delle sue mani.
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