30 ottobre 2011 - XXXI del Tempo ordinario


Matteo (23,1-12)


Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. [...] Voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo».


Il grembiule dell’umiltà

«Chi si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato» (Mt 23,12). Con questo paradosso, il Maestro insegna ai suoi discepoli la via dell’umiltà che, diversamente dalla falsa modestia, è l’unica strada per essere grandi agli occhi del Padre. Gesù, che sempre guarda al cuore delle persone e mai all’apparenza, mette in guardia i suoi discepoli dalla tentazione di mettersi in cattedra, come gli scribi e i farisei che, seduti sulla cattedra di Mosè, «dicono e non fanno» (Mt 23,3).

L’annuncio del Vangelo è un lavoro faticoso che non si esaurisce in un atteggiamento teorico e presuntuoso di chi, ritenendosi migliore degli altri, unico depositario della verità, si erige a giudice e maestro: «Non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro» (Mt 23,8). Il Vangelo non si annuncia «occupando posti d’onore nei banchetti» (Mt 23,6), ma con la testimonianza, mettendo la propria vita al servizio degli altri. Sull’esempio di Gesù, che «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo... e umiliò sé stesso... fino alla morte» (Fil 2,6-8), i discepoli del Signore devono saper indossare il grembiule dell’umiltà.

Soprattutto chi occupa i primi posti, se vuol essere discepolo di Cristo, deve essere di insegnamento con una pratica esistenziale che coinvolge le scelte, orienta le determinazioni, dà senso al proprio essere nella società in quel particolare ruolo di privilegio. E invece di tendere alla conquista del consenso, «dei saluti nelle piazze» (Mt 23,7), si avvale del suo ruolo per abbattere le strutture dell’ingiustizia.

Spesso chi occupa i primi seggi usa il suo potere per professare falsi valori e indottrinare gli uomini con un moralismo ipocrita, per schiacciarli sotto il peso del peccato, legando «fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono toccarli neppure con un dito» (Mt 23,4). Chi annuncia Cristo, invece, educa alla libertà della coscienza per rendere gli uomini capaci di discernere, in piena maturità e consapevolezza, il bene dal male.

I discepoli di Gesù non annunciano il Vangelo «per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,9), ma per liberare gli uomini da quel senso di colpa che imprigiona il rapporto con Dio in un senso di oppressione, anziché portare alla pace interiore propria di chi, affidandosi al Signore, si sente «quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre » (Sal 131,2).

Su quanti, facendosi chiamare «guide», usano il potere per i propri interessi, un giorno tuonerà il monito del Signore: «Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo.

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