5 maggio 2013 - VI domenica di Pasqua


Giovanni (14,23-29)


In quel tempo, Gesù disse (ai suoi discepoli): «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore»
.


I frutti della Pasqua


Perché è “bello” e quindi “ci conviene” essere cristiani? Può sembrare una domanda strana. Ma rimanda a una questione seria: «Perché fare del Vangelo la regola di vita»? Anche Pietro aveva posto al Signore Gesù una domanda simile: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; cosa ne avremo in cambio?» (Mt 19,27). Se comprendiamo bene, ci rendiamo conto che quanto avremo in cambio non è un dono facile da “gestire”. Gesù infatti ci dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». E ciò significa che il contenuto e la prova del nostro amore verso il Signore stanno nell’obbedienza, il cui esito non è la tristezza di aver legato la nostra libertà alla volontà di un altro, ma è il fatto gioioso che saremo ripagati con un amore ancora più grande di quello che abbiamo sinora vissuto: saremo coinvolti in “un crescendo di grazia” che qualifica la nostra vita come “Vita di Dio in noi”.

È esattamente il senso radicale delle parole di Gesù: «Il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Con il passare del tempo, mi accorgo che di tutto questo “mistero d’amore” riesco ad assaporare qualche “anticipo”, più o meno grande: così quando ripenso al mio servizio di sacerdote e di vescovo, o immagino quanto ciascuna mamma e ciascun papà possono assaporare di consolante nello spendere la propria vita, nel vedere vinte le mezze misure, nell’accogliere, nel perdonare, nel donare di più. Al di là di inevitabili momenti difficili o di prova – anzi proprio dentro questi momenti –, se si riesce a camminare, condividere e pregare insieme, si avverte che in noi non c’è solo una forza che supera le nostre abilità umane e che sta al di là dei nostri piani ben predisposti; c’è soprattutto una “presenza” che ci fa sentire di essere accolti e amati: è Dio stesso che viene a stare con noi quando amiamo, ossia viviamo con semplicità la nostra vocazione.

È lo Spirito di Gesù a certificare che le nostre scelte e i nostri gesti d’amore sono davvero “benedetti” perché ricevono da Dio il dono della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». Dunque non la semplice assenza di discussioni e di litigi, non la sola tranquillità – del resto così fragile – del vivere protetti, ma la pace che nasce dalla certezza che Dio ci sta apprezzando come figli, che quando lo invochiamo è già con noi per sorreggere i nostri propositi buoni e la nostra “ostinazione” nel bene. Questo è uno dei frutti della Pasqua cristiana: l’esultanza pasquale. Ma che significa esultare con e nel Signore risorto? Significa che questa esultanza non è qualcosa di sospeso a una fede il cui frutto è rimandato e riservato al futuro, quasi per trascinare sempre più in là la nostra disponibilità ad agire secondo la “regola di vita” del Vangelo.

No, il Vangelo, la buona notizia annuncia e porta a compimento il fatto che, proprio rimanendo nel dono di questa pace, si vive e si sperimenta nel presente un vero e profondo gaudio interiore. Questa gioia è il segno della presenza del Regno di Dio, promesso sì nella sua pienezza futura, ma già sin d’ora operante.

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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