Giovanni
(20,19-31)
La sera di quel giorno,
il primo della settimana,
mentre erano chiuse
le porte del luogo dove
si trovavano i discepoli
per timore dei Giudei,
venne Gesù, stette in
mezzo e disse loro: «Pace
a voi!». Detto questo,
mostrò loro le mani
e il fianco. E i discepoli
gioirono al vedere il
Signore. Gesù disse loro
di nuovo: «Pace a voi!
Come il Padre ha
mandato me, anche
io mando voi». Detto
questo, soffiò e disse
loro: «Ricevete lo Spirito
Santo. A coloro a cui
perdonerete i peccati,
saranno perdonati;
a coloro a cui non
perdonerete, non
saranno perdonati».
La misericordia trionfa
Ecco il Signore! È venuto tra noi per risvegliarci
dalle nostre pesanti tristezze: quelle
di ciascuno di noi e di tutti, quelle della
Chiesa, con la quale possiamo oggi vedere
più luminoso il mistero, ossia Gesù nostra speranza,
nostro perdono, nostra salvezza: una salvezza
resa certa dalle sue parole, dette al di là,
ormai, di ogni tradimento, di ogni abbandono
e infedeltà. Il Pastore ha raggiunto la pecora
smarrita, l’ha curata, l’ha portata sulle spalle.
Sì, ha crocifisso nella sua morte il peccato
che l’ha fatta perdere separandola dall’amore
più grande e più tradito di tutti.
La Pasqua è il trionfo della Divina Misericordia,
dell’attenzione che il Signore riserva persino
alle nostre residue paure. Mi sembra davvero
curioso che Gesù non spalanchi di nuovo
«le porte del luogo dove si trovavano i discepoli
per timore dei Giudei». Questo timore va curato,
come le ferite dell’«uomo che scendeva
da Gerusalemme a Gerico», dal
Samaritano che ha la medicina
più forte di ogni piaga. Gesù
stesso in persona è questa medicina
offerta a tutti nella sua
onnipotente Parola: egli non
si limita a consolarci al caro
prezzo della propria vita,
ma ci dona la pace.
Il «Pace
a voi» dice che ormai la pace
lega in unità indivisibile
Dio a noi e noi a Dio, perché
ci restituisce la dignità
di figli, per quanto possiamo
aver cercato la fonte
della vita lontani dal Padre
e forse nel peccato.
È la Pasqua di Gesù l’unico passaggio da
morte a vita che trascina con sé il nostro esistere
e il nostro stesso morire, preservandoli
da ogni possibilità di perdersi nell’abisso del
male che deturpa sino ad annientare la nostra
radicale bellezza e quella di tutto il creato.
Questo fa lo Spirito, il Soffio di vita restituitoci
nel perdono, così come all’inizio di
tutto ci era stato insufflato perché diventassimo
«esseri viventi». L’Adamo allora uscito dalle
mani di Dio è adesso rinnovato dalla croce
e dalla risurrezione del Signore.
E così nella Pasqua di Gesù siamo ancora
una volta introdotti in quell’unica vera e
grande speranza che ormai la Chiesa, come
Sposa, condivide con il suo Sposo perché resa
partecipe della vita stessa di lui. Così nel
suo Nome la Chiesa perdona, annuncia la
salvezza, la rende presente ed efficace nei
suoi gesti: in quei “segni” sacramentali che,
forse, sono tra quelli non raccontati
dall’evangelista Giovanni ma presenti nella
missione che alla Chiesa viene affidata «perché
tutti credano e, credendo, abbiano la vita
nel nome di Gesù».
Quella sera Tommaso era assente: come
noi. La vicenda di questo apostolo mi incuriosisce
anche al di là delle interpretazioni più
consuete: lui mi rappresenta nel non sapere
da dove mai venga agli altri dieci il potere di
perdonare i peccati. Potrà anche lui perdonare
chi ha ucciso il Maestro? Da dove gli verrà il
dono di seminare misericordia dove non c’era
altro che spavento e violenza? Gli verrà, otto
giorni dopo, dal ritorno del Signore risorto.
Un ritorno che è di conforto anche per la nostra
missione: nella Chiesa, per il mondo.
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