27/05/2011
Il cardinale Gianfranco Ravasi durante il suo intervento nel duomo di Vicenza (foto Alessandro Dalla Pozza).
Il Festival Biblico è ufficialmente partito con la lectio magistralis inaugurale del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e per la quarta volta applauditissimo ospite della kermesse. Se l’anno scorso il compito di inaugurare l’ultima e più importante parte dell’iniziativa fu affidato al cardinal Dionigi Tettamanzi , quest’anno è il Presidente del Pontificio Consiglio della cultura a intrattenere un migliaio abbondante di persone in un duomo di Vicenza gremitissimo. Il flusso delle generazioni, la vita e la fede nel fluire del tempo, l’incapacità di noi uomini e donne moderni di generare, il valore del silenzio. Questi in breve i punti toccati dal cardinal Ravasi. Di seguito la sintesi del suo intervento.
Nella prima parte della sua meditazione Ravasi, commentando i primi versetti del Salmo 78, ha ricordato che tutti noi siamo stati generati e molti sono stati o saranno “generanti” di altri uomini nel fluire della storia e del tempo. La Bibbia, ha detto Ravasi, è un grande libro di uomini e di donne, di madri, padri, figli e figlie, di clan, di famiglie e di storie di popoli, di maestri e discepoli. Di anelli genealogici di felicità e di tormento. Dio stesso genera il Figlio, Cristo, come diciamo ogni domenica nel Credo. Lo stesso Nuovo Testamento, il Vangelo di Matteo, inizia con una genealogia. La Bibbia, un libro di generazioni umane e divine, insomma, che ha al centro una realtà di generazione ininterrottamente vivente fino a oggi.
Il biblista ha concentrato innanzitutto la sua riflessione sulla filologia delle parole bibliche, importanti perché esprimono realtà profonde. Figlio, ad esempio, deriva da una parola sanscrita che significa “allattare” e in latino significa “libertà”. Generare, insomma, è essere liberi. Il libro del Qhoelet (1,4), ad esempio, dice che una generazione se ne va e un’altra subentra su una terra eternamente ferma. L’autore biblico qui è acido: la terra assiste indifferente alla morte e alla nascita delle generazioni, teatro muto del nostro muoverci. Quando parliamo delle generazioni parliamo allora del tempo, della storia, di qualcosa che passa e scorre. Lo ricorda anche il Siracide, scritto nel II sec. A.C.: “Come foglie spuntate su albero verdeggiante l’una cade e l’altra sboccia, così sono le generazioni di carne e sangue. Una muore e l’altra nasce”. Il filo del tempo non si spegne mai e la storia delle generazioni, in ultima analisi, è la storia del nostro stesso limite.
Ma il fluire delle generazioni è anche teofania di Dio. La Bibbia non ci invita a decollare verso cieli mitici, un ambiente ineffabile, impalpabile... No, il Dio biblico ha deciso di svelarsi nelle storie umane ed è lì che occorre cercarlo. Gn 1,27 ha un parallelismo per cercare di rendere il concetto più incisivo: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a sua immagine lo creò, maschio e femmina li creò”. Dio, insomma, è maschio e femmina e l’immagine più vicina all’essenza di Dio è l’uomo e la donna che insieme generano e, come Dio, dal “nulla fanno essere il creato” attraverso un atto d’amore.
L’uomo e la donna continuano l’opera creatrice di amore di Dio offendo a questi l’occasione di svelarsi attraverso il succedersi delle generazioni. Per questo ad Abramo è fatta la promessa fondamentale del figlio: “conta le stelle … tale sarà la tua discendenza, renderò la tua discendenza come la sabbia della spiaggia”. La generazione di uomini e di donne allora è veramente la trama della vita: della nostra esperienza umana e spirituale, nella storia, non possiamo non essere immessi in questo flusso in cui scorre Dio stesso. Le generazioni, in definitiva, sono la sede della teofania.
Nella seconda parte delle sua meditazione Ravasi, facendo riferimento al capitolo 12 del libro dell’Esodo, ha ricordato che la pasqua ebraica narrata nell’Esodo rappresenta la sequenza delle generazioni, un memoriale da celebrare “di generazione in generazione”, un luogo, anzi “il” luogo privilegiato in cui i padri insegnano ai figli la storia della salvezza. Le generazioni sono allora come il seme dell’umanità credente, fosse pure, come capiterà spesso bella Bibbia, di generazioni adultere e infedeli, che non sanno conservare l’alleanza con Dio. L’aggadah, la narrazione della fuga dall’Egitto, è ancora oggi un intreccio di voci, di domande e risposte tra padri e figli. La giovane generazione chiede all’antica il significato del rito per poterlo poi narrare a sua volta alla generazione successiva. Il tema dell’educazione, insomma, si intreccia strettamente con quello della generazione. Lo stesso Concilio Vaticano II ha definito i genitori i primi maestri della fede.
La generazione è dunque l’orizzonte fondamentale entro cui bisogna annunciare la fede. È triste vedere oggi che le generazioni sono mute tra loro, la generazione più vecchia è senza parole, forse ha perso il gusto di quella voce che, quando era piccola, le parlava di Dio, degli eventi salvifici. La stessa società non ha più gli anelli genealogici della narrazione con tutto il calore e la passione di colui che sa di custodire un tesoro. Siamo allora una generazione di smemorati, non ci si raccontano più le grandi cose, i grandi eventi, siamo tutti protesi sul quotidiano, sul giorno che alla fine si spegne. “Chi non ricorda non vive”, diceva il poeta Pasquali. Ed Elliott, ben 70 anni fa, commentava: “Noi stiamo dimenticando il nostro cristianesimo”.
La nostra disgrazia sarà che saremo una generazione senza volti, senza identità. L’appello allora è di custodire di generazione in generazione le meraviglie del Signore perché i nostri figli abbiano a narrare a loro volta le meraviglie del Signore ai loro figli. Noi siamo come nani sulle spalle di giganti. La Bibbia dice che le generazioni sono il luogo dove custodire il passato e costruire il futuro. Se il messaggio di fede non verrà consegnato alle generazioni future, questo significa che non saremo capaci di sottrarci al vuoto e all’inconsistenza del nulla.
Tre indicazioni per concludere: ne “Il Profeta”, opera molto vicina alla sensibilità biblica, Kalil Gibran dice che i figli non ci appartengono, possiamo amarli ma non costringerli ai nostri pensieri perché loro hanno i loro pensieri. Questo dice come le generazioni ci ricordino il limite del tempo. è per noi una lezione di umiltà. Le generazioni sono mille e altre mille, ma noi non possiamo abitarle tutte. Seconda considerazione: la prima lettera di Giovanni dice che Cristo è stato generato secondo la carne, è stato generato in eterno e che chiunque ami è stato a sua volta generato e conosciuto. Dio è amore. Chiunque crede che Gesù è il Cristo è stato generato, e chi ama colui che ha generato sarà amato da colui che è stato generato. Fede e amore dunque si intrecciano strettamente.
E infine un riferimento al regista Kieslowski, che ha dedicato 10 film a tutti e 10 i comandamenti. “Ho scelto il decalogo perché lo violiamo ogni giorno ma rimane lì, ininterrottamente come muto parlante” ha detto in un’intervista. E così è la voce di Dio che risuona dal Sinai offrendo a Mosè i comandamenti, che continuamente incide ferite alla nostra superficialità, al vuoto che ci circonda.
L’invito allora è, come scrisse il teologo protestante Dietrich Bonhoffer subito prima di morire per mano dei nazisti, di fare silenzio: prima di ascoltare la Parola di Dio e subito dopo averla ascoltata, perché i nostri pensieri siano già rivolti a Dio e perché Egli può parlarci anche dopo che l’abbiamo ascoltata; ma il silenzio è necessario anche la mattina presto, perché Dio deve avere la prima parola del giorno, e la sera, prima di coricarci, perché anche l’ultima parola appartenga a Dio.
Dossier a cura di Stefano Stimamiglio