Testimonianza: «Da grande voglio fare il prete»

27/04/2013
Filippo Masserenti. Foto di Paolo Siccardi/Sync.
Filippo Masserenti. Foto di Paolo Siccardi/Sync.

Filippo Massarenti, 31 anni, nato a Rivoli (Torino), ricorda bene il giorno della sua prima comunione. Si rivede mentre, uscito dalla chiesa, cammina con suo cugino che gli dice: «Io da grande voglio fare l'astronauta. E tu?». Lui ci pensa un attimo, poi risponde: «Io il prete». Ma ben presto quel proposito di bimbo si perde tra altri desideri. Perché, crescendo, Filippo smette di frequentare la parrocchia, che gli pare «un posto un po' da "sfigati"». Dopo la maturità classica, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza. Inizia così la sua esperienza cosmopolita tra Torino e Parigi, dove svolge parte degli studi universitari. Laureatosi brillantemente in diritto internazionale, accetta un prestigioso lavoro presso l'Unesco. Insomma, ci sono tutte le carte in regola per fare un avvocato di successo o magari un diplomatico. E invece, a 28 anni, la svolta: Filippo entra in seminario.

Oggi la sua giornata ha tutt'altro tenore rispetto al passato: sveglia alle 6, Messa, Lodi Mattutine, poi meditazione, libri di teologia, pomeriggi a «scoprire il fascino della parrocchia un tempo snobbata» ed esperienze di servizio ai più poveri. Lui non nasconde un filo di nostalgia per la Ville Lumière e le sue infinite attrattive, la possibilità di gestire il tempo in assoluta autonomia, «magari anche sprecandone un po'». In compenso racconta di aver trovato «quella totale pienezza di vita che solo l'incontro con il Signore può dare. La mia è stata una scelta inattesa – dice - ma vissuta con grande naturalezza». Oggi Filippo fatica a immaginare una vita da prete, che per lui inizierà fra tre anni. «Preferisco concentrarmi sul tempo presente. Posso solo dire che il sacerdozio è un dono, non un diritto. In questa strada tutto dev'essere dato e nulla preteso. Spero di riuscire a vivere il mio ministero in quest'ottica di servizio totale. Prete, appunto, non funzionario della Chiesa – dice citando papa Francesco – Un ponte per il Signore, non un passacarte, anche se a volte la mia formazione giuridica mi vorrebbe portare in questa direzione».

Daniele Venco. Foto di Paolo Siccardi/Sync.
Daniele Venco. Foto di Paolo Siccardi/Sync.

Diversa l'esperienza di Daniele Venco. Per lui "galeotto fu il coro". E' stato infatti nella piccola cantoria della sua parrocchia, a Nole (paesino del Torinese dove tutti si conoscono) che questo giovane ventisettenne ha fatto i primi assaggi di vita ecclesiale. Alle spalle una famiglia di salda tradizione cattolica (già il nonno, punto di riferimento forte, cantava nel coro). Della sua vocazione Daniele ricorda con precisione giorno e luogo: 2 giugno 2008, durante un ritiro spirituale a Corio Canavese (Torino). Non è stato un passo improvviso, più semplicemente «il chiaro manifestarsi di un'idea che mi frullava dentro da tempo. L'idea, bellissima e sconvolgente, di diventare prete». Ma perché quell'intuizione si traducesse in scelta concreta ci sono voluti tempo, un lungo travaglio interiore e un percorso di direzione spirituale. «All'inizio è stata più forte la paura. Mi sentivo scombussolato, come quando stai per tuffarti e intuisci il vuoto sotto di te. Qualcosa dentro mi chiedeva: "Sei pronto a saltare? Sei disposto a dare tutto te stesso?"». Tre anni più tardi (era il settembre 2011) Daniele ha trovato la forza per quel grande salto e ha iniziato il suo cammino di seminarista.

Attualmente il seminario maggiore di Torino accoglie 30 ragazzi (cui vanno aggiunti 2 giovani africani che, terminati gli studi, eserciteranno il ministero nelle Diocesi d'origine). Un terzo di loro arriva direttamente dalle scuole superiori, gli altri hanno alle spalle percorsi universitari o lavorativi. Età media 28 anni. Tante le sfide che li aspettano fuori dalla porta. A cominciare dal celibato, oggi più che mai argomento spinoso. Alcuni ambienti (anche all'interno della Chiesa) lo considerano una rinuncia anacronistica. «Non direi rinuncia – risponde Simone Pansarella, 29 anni, seminarista al quinto anno di teologia dopo una formazione da perito elettronico e un lavoro da cuoco – Direi invece risorsa. Certo, l'idea di non avere una famiglia futura può sembrare problematica. Anche per i miei genitori non è stato semplice, all'inizio: avevano ben altri progetti e sognavano dei nipotini. Ora, però, sento che in me c'è posto per un unico, grandissimo amore. Un amore cui devo dare tutto. Altrimenti mi sentirei come il giovane ricco descritto nel Vangelo».

E che dire delle crisi vocazionali, tema altrettanto scottante? Chi, come don Ennio Bossù, rettore Seminario Maggiore Torino, ha vissuto oltre trent'anni in terra di missione (diocesi di Verapaz, Guatemala) difficilmente si lascia scoraggiare. «In America latina – racconta – sono venuto a contatto con un modello di Chiesa molto diverso dal nostro. Lì la mia parrocchia contava 40.000 persone sparse tra città e zone montane, comprese 60 comunità isolate. Eppure ho sperimentato che è possibile vivere un ministero basato sulla qualità e non sulla quantità». Tuttavia il problema del calo numerico di preti rimane. «Senz'altro. Ai sacerdoti del domani non si potrà chiedere di fare tutto, ma di tenere tutto insieme, essere un punto di riferimento. Questo però implica dei cambiamenti sostanziali, anche a livello diocesano, e un maggiore coinvolgimento del laicato. Sono temi su cui si sta iniziando a lavorare. Ci vorrà molto tempo, perché siamo appena all'inizio». I segni di speranza, comunque, non mancano: «Quando, sei anni fa, sono stato nominato rettore c'erano solo undici seminaristi. Ora il loro numero è più che raddoppiato. Ma soprattutto, posso dire che questi ragazzi sono profondamente innamorati di Dio. Pochissimi abbandonano il cammino, grazie anche a un serio lavoro di discernimento fatto a monte. Neppure la consapevolezza degli scandali della Chiesa riesce a spegnere in loro l'entusiasmo e la voglia di sognare».

Lorenzo Montanaro

Non bisogna però credere che chiunque varca la soglia di un seminario abbia dinanzi a sé un futuro da prete. Il seminario minore di Torino organizza da anni un programma di settimane vocazionali. «In questi momenti non si fa riferimento direttamente al sacerdozio, ma alla vocazione in senso più ampio – spiega don Mario Aversano, rettore Seminario Minore Torino - Ci sono settimane solo maschili e altre solo femminili. Soprattutto negli anni delle scuole superiori, la divisione per genere (parliamo di periodi brevi, ovviamente) può essere un aiuto: fa emergere meglio alcune dinamiche e domande profonde. Qui cerchiamo di dare ai ragazzi uno spazio di ascolto e condivisione, in un contesto adulto che li prenda sul serio». Giuseppe, 17 anni, studente dell'istituto commerciale, ha appena concluso uno di questi percorsi. Per qualche giorno ha lasciato la sua casa affollata (genitori, fratelli, due cani e un gatto) e ha vissuto un'esperienza di comunità, insieme ad alcuni coetanei. E' entusiasta.

La giornata inizia con una preghiera in cappella. Poi vita normale: la scuola, i compiti e tutto il resto. Fino al tardo pomeriggio, quando la comunità torna a riunirsi. C'è la lectio divina, ma ci sono anche momenti di gioco e qualche fuori programma. «Si sta benissimo – racconta Giuseppe – Il clima è di grande amicizia. Ormai mi sento un po' a casa. Quando verso le 17.30 arrivo da scuola, per prima cosa le suore mi chiedono se ho mangiato, quasi come delle mamme. Non è facile gestire gli spostamenti, per me che vivo e studio fuori Torino. Ma ne vale la pena: qui non mi sento mai stanco». Sul suo futuro Giuseppe non ha ancora le idee chiare: «Non so se mi piacerebbe diventare prete. E' una possibilità che non escludo. Di sicuro sto cercando qualcosa. Del resto, non siamo noi a fare il progetto. E non è detto che la vocazione al sacerdozio si possa maturare solo stando in seminario. Può arrivare anche a casa, o magari per la strada. Perché, in fondo, penso che la vocazione sia qualcosa di molto semplice».

Dossier a cura di Alberto Chiara e Antonio Sanfrancesco
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