Come cambiano i giochi, come cambiano i giocatori, Mauro Croce

11/08/2010

Se per la maggior parte delle persone giocare costituisce un’attività del tutto priva di rischi e conseguenze, per alcuni l’incontro con il gioco può essere punto di partenza verso un’evoluzione con esiti negativi. Un’evoluzione che, partendo da modalità di gioco moderato, sporadico, occasionale si amplifica in intensità ed esclusività sino a rendere il gioco centrale, totalizzante e irrinunciabile.
Tale evoluzione tuttavia può essere molto diversa da persona a persona e se per taluni può presentarsi in maniera costante e progressiva per altri può apparire alternata a tentativi di moderazione o di astinenza. Molte altre persone presentano invece vere e proprie "sbornie" di gioco che successivamente riescono a superare o a confinare.
Nonostante nelle modalità problematiche e patologiche il gioco sia una attività prevalentemente di tipo solitario, nelle prime fasi tale attività non solo può essere condivisa con altri, ma addirittura altri membri della famiglia possono partecipare attivamente ad alcuni momenti di gioco. Alcuni giocatori patologici raccontano infatti di avere iniziato a giocare insieme alla propria moglie per vivere emozioni diverse, per divertirsi, per condividere un’attività oppure di avere iniziato a studiare e rincorrere con la propria famiglia i numeri ritardatari al Lotto.


Da una parte quindi una coppia può ricorrere al gioco per trovare momenti di svago, di distrazione, di possibilità di condividere esperienze di rischio, di sfida, di coinvolgimento oppure può iniziare a giocare sperando in un colpo fortunato. All’inizio vi è sempre un senso di insoddisfazione, più o meno acuta a seconda dei casi, che dà origine al desiderio di cercare di vivere e condividere un’esperienza appagante, diversa, il trovare un antidoto alla noia, il risolvere un problema economico.
Tuttavia lo svolgersi stesso del gioco, dal momento in cui si verifica la partecipazione, trasforma l’insoddisfazione di fondo in un movente, sia esso l’eccitazione, lo sfoggio di abilità e l’intrattenimento; e poi l’appagamento, soprattutto quando si vince (Croce, Lavanco, Varveri, 2001).

Successivamente però cominciano a suonare alcuni campanelli d’allarme che possono spingere la coppia a discuterne il senso e i costi. Ma in questa fase possono nascere incomprensioni e ciò che un coniuge interpreta come necessità di smettere o regolare fortemente il coinvolgimento con il gioco, può trasformarsi nell’altro in tentativo di rifarsi, di riprovare, di continuare autonomamente e spesso di nascosto a giocare.
In generale comunque il primo incontro con il gioco avviene insieme ad altri. Può essere una serata al casinò, può essere il partecipare a un sistema con colleghi, può essere l’invito a giocare a carte. Se per molti (la maggior parte delle persone), tale incontro con il gioco resta limitato e circoscritto, per altre persone scattano dei meccanismi che portano a giocare con sempre maggiore frequenza, intensità e coinvolgimento.
Nelle prime fasi il giocatore gioca sporadicamente, sente che può smettere con relativa facilità e questa prima fase può essere assimilabile alla nota fase della luna di miele con la sostanza dei tossicomani. Vede altri che si sono rovinati con il gioco ma pensa che lui potrà smettere quando vorrà. È abbastanza moderato, gioca in maniera oculata, cerca di darsi dei limiti e se sconfina ha la sensazione di poter recuperare o smettere. Le vincite gli offrono la sensazione di potere guadagnare facilmente e anche divertirsi, mentre le perdite sono vissute come parentesi e comunque razionalizzate dalla speranza di potersi rifare. La famiglia in questa fase solitamente non se ne accorge o comunque non se ne preoccupa eccessivamente.

L’avvicinamento iniziale può derivare da svariate ragioni e il gioco offre una distrazione, una fuga, una possibilità di eccitazione che nella vita non si riesce ad avere. Ma una persona può anche essere all’inizio attratta, ad esempio, dai numeri ritardatari del Lotto e pensare sia relativamente facile, possibile e divertente vincere e guadagnare del denaro e pertanto essere tentato di sfidare la sorte e in caso di insuccesso, pensare non valga la pena e interrompere di giocare e successivamente dimenticarsene o dedicare pochissimo interesse.

Può però innescarsi una sfida al recupero del denaro perso che conduce a un pericolosa escalation alimentata dal pensiero che il fatto che il numero ritardatario non sia uscito possa aumentare le probabilità alla prossima estrazione. In fondo il giocatore pensa di avere investito una piccola somma di denaro e basterebbe raddoppiarla per rifarsi ampiamente.
D’altro canto sarebbe stato troppo facile vincere al primo colpo e in fondo la prima volta non si è rischiato molto. Basta ora insistere e aumentare la posta. Alla fine si sarà premiati.

Se si innesca tale processo il rischio è piuttosto alto. In caso di successiva vittoria il giocatore sarà portato a pensare che insistendo è possibile rifarsi delle perdite e in fondo il giocare "in maniera oculata" può essere un’ottima occasione per guadagnare facilmente. In caso di perdita può continuare a insistere oppure abbandonare la partita.
Ma se, pur abbandonando la partita, continuerà a osservare i numeri estratti, qualora i numeri non giocati fossero successivamente estratti potrà pensare che in fondo ne sarebbe valsa la pena di tentare e rifarsi della somma persa: «la prossima volta basterà non mollare ai primi insuccessi e alla fine non si potrà che essere premiati!». In caso di non estrazione potrà invece sentirsi soddisfatto per "lo scampato pericolo" e per la prudenza dimostrata e anche provare un senso di commiserazione per chi ha continuato a insistere. Tuttavia tale attenzione e interesse verso il gioco, verso i numeri estratti, quelli ritardatari, può presentare notevoli rischi e essere preludio a nuovi tentativi ed escalation, soprattutto se il soggetto diventa sempre più attratto e interessato a ricorrenze di numeri, teorie bizzarre sulla probabilità, e precognizioni (sogni, ricorrenze).
In questa fase possono verificarsi anche pensieri quali: «Ho giocato l’81 ma è uscito l’82 oppure l’80 e quindi ci sono andato vicino, oppure è uscito il 18 (che è l’81 rovesciato) oppure ancora il 9 (8+1) oppure ancora l’81 può effettivamente uscire ma su un’altra ruota o può uscire un numero del tutto diverso ma al quale il giocatore aveva pensato in quei giorni o, infine, può uscire un numero per lui significativo.
In questa modalità di pensiero le possibilità sono teoricamente infinite. Il numero effettivamente estratto può essere simile o coincidere con la propria data di nascita, quella della moglie, dei figli, dei genitori, la data del matrimonio, la targa dell’auto, il numero civico, del telefono e così via.
Quando si innesca tale pensiero, questo diventa sempre più monopolizzante e i numeri si trasformano da entità astratte a elementi che si pensa di potere controllare, prevedere. Il rischio diventa molto forte.
Il mondo del gioco, con i suoi numeri, i suoi riti, le sue complicità, diventa gradualmente un’isola dalla vita reale e dalla quotidianità. Mentre infatti la realtà diventa sempre più problematica (i debiti, le incomprensioni della famiglia, il lavoro che si trascura, i problemi che si rimandano e che si amplificano, la perdita di fiducia e di stima), il mondo del gioco diviene sempre più il mondo "vero". Quello che vale la pena di vivere. I sensi di colpa e di fallimento vengono rimandati e giustificati dalla necessità e possibilità di potersi rifare.

 
La rincorsa al denaro
Quando si innesca questo meccanismo e la rincorsa al denaro perso diventa sempre più intensa e assillante, il gioco diviene sempre più solitario e centrale nelle preoccupazioni e nelle occupazioni della persona.

Le assenze dalla famiglia sono sempre più frequenti e le giustificazioni sempre più difficili da inventare e sostenere. Cominciano a presentarsi delle difficoltà economiche e se, nelle prime fasi, il giocatore riusciva a mentire e a recuperare – attraverso la famiglia, i parenti, gli amici, i colleghi, la banca – il denaro perso, «il gioco di recuperare il denaro e di giustificarsi» diventa sempre più difficile da sostenere.
Per recuperare il denaro perso diventa necessario rischiare maggiormente e giocare su combinazioni e tipi di giochi che promettono maggiori guadagni ma minori probabilità. E il denaro chiesto in prestito finisce presto mentre le vincite vengono reinvestite nel gioco. Le scuse in casa sono le più varie e se, nelle prime fasi sembravano tenere, ora si innesca una spirale molto difficile da controllare. I debiti sono sempre più forti. Difficilmente si possono onorare e qualcuno comincia a sospettare vi sia qualcosa che non funziona.
La famiglia può trovarsi in una situazione che viene definita di "cecità" (Coletti, 2001), ovvero assiste a una realtà che presenta segni incontrovertibili ma ciò nonostante non riesce a vederla.

Tale cecità nulla ha a che vedere con un disegno cosciente di disinteresse. Anzi, «i familiari e il partner possono, al contrario essere angosciati senza riuscire a percepire con chiarezza ciò che accade. Da una parte ci si rifiuta di pensare e vedere la realtà per quella che è; dall’altra si vuole credere alle spiegazioni, alle negazioni, al tentativo di minimizzare del soggetto. Dall’altra ancora, esiste un "guadagno secondario del sintomo" ben noto e studiato in altre forme di dipendenza: ovvero una sorta di funzionalità che il comportamento patologico svolgerebbe all’interno del sistema familiare nel quale il giocatore assume "la funzione di sintomo del malessere e stabilizzatore dell’omeostasi familiare"» (Guerreschi, 2000, pag. 122). Tuttavia certi segnali non possono più essere negati e la famiglia può rendersi conto della drammaticità della situazione nei più svariati modi, compresa la possibilità di trovarsi improvvisamente senza luce, acqua o gas in quanto il denaro che doveva servire per pagare le utenze è stato utilizzato per giocare.

Il giocatore a questo punto si trova in una situazione molto delicata. Un misto di elementi di orgoglio e di vergogna e la difficoltà a riconoscere quello che veramente avviene (insieme alla speranza che con una buona vincita si possa mettere tutto a posto) spingono a negare, a isolarsi ancora di più, a sentirsi incompresi e insistere nell’attività del gioco.
Forse si è già ricorsi all’usura, ai piccoli reati, forse era già stato promesso di non ritornare più a giocare ma si cerca di minimizzare, o confessare strumentalmente che si tratta di un problema che ora comunque è superato o sotto controllo.


Lo stupore e la rabbia
Il rendersi conto di un problema di gioco risulta per la famiglia un qualcosa di incomprensibile. Un qualcosa che crea in un primo momento stupore più che rabbia, incredulità piuttosto che disperazione. Se si scopre che un proprio familiare utilizza droga o abusa di alcol, "almeno" ce la si può prendere con una sostanza esterna, con un qualcosa che ha minato la capacità di scelta, qualcosa che un "qualcun altro" gli ha dato. La colpa è degli spacciatori, la colpa è di una sostanza tossica la quale è la causa di tutto. Nel caso del gioco d’azzardo questo è più difficile da sostenere.
Da un lato vi è il tentativo di minimizzare, di consolarsi pensando che avrebbe potuto accadere qualcosa di peggio. Il gioco d’azzardo a differenza di altre forme di dipendenza che presentano evidenti segni, danni, rischi di ordine fisico, offre maggiori alibi alla negazione e alla minimizzazione e questo non solo da parte del paziente ma anche dei familiari. Ma lo stupore, la negazione e la minimizzazione lasciano presto il posto alla rabbia e all’impotenza.


Rabbia contro «il giocatore, ma anche verso tutto ciò che è identificato come responsabile del disastro: le case da gioco, i croupier, coloro che si pensa abbiano lucrato sull’ingenuità del giocatore; gli amici che non hanno fatto molto per fermarlo o che non hanno denunciato la situazione alla famiglia» (Coletti, 2001) e la società in generale che trae profitti dalla debolezza di alcuni. Ma anche rabbia contro il giocatore che non ha raccontato prima il suo vizio o che peggio ancora ha negato di fronte a tante evidenze. Che li ha ingannati così a lungo, non è stato in grado di fermarsi in tempo, di chiedere aiuto e di portare alla rovina la famiglia.

Si scoprono i debiti. Alcuni sono insanabili ma si spera ancora che basti un atto di buona volontà e un impegno preciso. In taluni casi può essere la scoperta di una situazione inaspettata e incomprensibile in una persona che non manifestava segni di difficoltà oppure, in altri casi, può essere lo scoprire tale nuovo problema in una persona che aveva manifestato e magari risolto altri problemi di dipendenza.

Falliti i primi tentativi di aiuto da parte della famiglia spesso i familiari provano a chiedere aiuto a qualcuno per aiutare il giocatore a smettere ma egli non ne vuole sapere. Minimizza, dice che lui non ha alcun problema e non raramente può diventare aggressivo. Sono gli altri che hanno problemi. Lui ha attraversato un momento difficile ma ora tutto è a posto. Il suo è solo un problema di denaro. Se riesce a pagare i debiti le cose andranno a posto. Si pone per la famiglia una scelta assai problematica e rischiosa: aiutarlo? Pagargli i debiti e sperare che si possa chiudere questo capitolo? Oppure lasciarlo in una situazione disperata e sentirsi responsabili di questo?
Il ricatto emotivo è molto forte e la famiglia può essere tentata dalla speranza di dare denaro al giocatore sotto forma di "cauzione" con la promessa di abbandonare il gioco o di ridurlo drasticamente. Ma tale cauzione rischia di essere dannosa quanto la grande vincita poiché tende a non responsabilizzare il giocatore bensì a rafforzare il suo ottimismo irrazionale e dargli la possibilità di ricominciare a giocare. In preda a una specie di delirio di onnipotenza, credendo comunque di averla vinta, il giocatore si giocherà anche questo denaro e nella famiglia si accrescerà la sensazione di fallimento e di rabbia.

Distruggersi o farsi aiutare?
Pur non avendo nel caso del gioco d’azzardo a differenza delle tossicodipendenze (Zerbetto, 2001), una ricchezza di ricerche relative a ipotesi e trattamenti di tipo familiare, tuttavia molte esperienze e molti studi indicano nel coinvolgimento della famiglia un elemento di straordinaria importanza (Heineman, 1989; Haustein e al., 1992; Abbott e al., 1995; Hammond, 1997; Guerreschi, 2000).
Talune esperienze segnalano come, qualora il soggetto rifiuti di partecipare, sia opportuno iniziare il trattamento con i soli familiari (De Luca, 2001). È infatti importante che anche «i familiari per prima cosa comprendano come far fronte al proprio scompiglio prima di spostare il problema sul giocatore o altri» (Federman e al., 2000).
Tuttavia se forti possono essere le resistenze ad accettare un processo di impegno e di cambiamento, forti sono anche i rischi di interromperlo non solo da parte del soggetto ma anche da parte dei familiari.

Le possibili ricadute o gli apparenti e immediati successi possono infatti portare ad abbandoni precoci. La ricaduta può essere interpretata come segnale di non volontà di cambiamento con conseguente colpevolizzazione del paziente, mentre i primi successi possono illudere che tutto ormai sia risolto. Se il coinvolgimento e la sofferenza causati dal gioco patologico investono non solo il soggetto ma anche la sua famiglia, e pertanto è opportuno e necessario strutturare interventi di tipo multimodale e multifasico, che possano cioè prevedere, a seconda delle situazioni e delle fasi, momenti di intervento individuale, di coppia, di gruppo e della famiglia, va anche detto che le aree interessate dalle conseguenze del gioco patologico necessitano di interventi, di attenzioni e di professionalità diverse. Esiste infatti il dato concreto dell’indebitamento del giocatore e della famiglia che deve essere affrontato. Si può porre allora l’esigenza di nominare un tutor esterno e esperto e questo organizzare un piano di risanamento dei debiti e gestire il rapporto con i creditori. Come suggerisce Guerreschi tuttavia: «È sconsigliabile arrivare a una soluzione che permetta l’immediato pagamento dei debiti» (Guerreschi, 2000, pag. 127) in quanto il giocatore potrebbe interpretare questa ipotesi alla stregua di una vincita con il risultato di rafforzare il suo comportamento verso il gioco.
La cosa diventa ancora più problematica quando si tratta di usurai o di organizzazioni criminali. Il giocatore può essere terrorizzato delle possibili reazioni e, per vergogna o timore – ma sempre soggiace la speranza di potersi rifare e chiudere "magicamente" il tutto – non volere sporgere denuncia. Tale aspetto è da considerare con straordinaria delicatezza. Il giocatore può fuggire per non affrontare tale situazione. Ma è veramente importante chiedere aiuto e consulenza a persone esperte e affidabili.
È poi necessario privare il giocatore di carte di credito, bancomat, anche se va ricordato come, nella maggior parte dei casi a tali livelli gli istituti di credito possano già avere sospeso tali servizi.


La gestione dei soldi
Rimane aperta la questione del denaro contante. Bisogna infatti considerare come il giocatore soprattutto nelle prime fasi di promesse di cambiamento sia fortemente a rischio. Un familiare, potrebbe farsi carico della co-gestione del denaro insieme al giocatore consegnandogliene solo per le spese correnti quotidiane, programmate e verificabili. È questa una funzione di particolare delicatezza.

Il rischio può essere quello di una gestione troppo rigida, sadica e colpevolizzante, ovvero di un rifiuto più o meno cosciente di tale funzione con tentazioni di proiettare "la parte cattiva" sul terapeuta, sul gruppo, sugli altri, e colludere con il giocatore minimizzando, concedendosi "qualche infrazione", considerando il problema come risolto o in via di risoluzione.

Nel primo caso il rischio è di trattare come un bambino una persona che fino a ieri maneggiava grandi quantità di denaro e relegare in un ruolo di umiliazione e dipendenza chi fino a ieri nella famiglia poteva avere un ruolo di riferimento.
Umiliandolo in questo modo (gli scontrini del bar per il caffè, le sigarette comprate dalla moglie...) senza comprendere e condividere l’importanza e anche la delicatezza e la provvisorietà di tale fase – ecco un motivo in più per aiutare e coinvolgere la famiglia nel progetto terapeutico – può portare a rifiutare il trattamento, a diventare aggressivo, oppure a "recitare la parte" aspettando tempi migliori. Nel secondo caso si rischia invece di trattare il giocatore come alcuni genitori trattano gli adolescenti ovvero costruendo insieme un pericoloso processo di infrazione di regole, di collusioni, di complicità.
Il gioco d’azzardo patologico (Gap) sta sempre più evidenziando nel nostro Paese un progressivo passaggio da un’immagine stereotipata e romantica che lo confinava in "mondi lontani, diversi" verso una diffusione sociale che coinvolge sempre più persone di diversi strati sociali e con costi umani e sanitari molto alti (Croce, 2001).
Tuttavia, tale problema risulta ancora fortemente misconosciuto o sottovalutato e le famiglie che si trovano al loro interno un familiare con problemi di gioco patologico, spesso non sanno a chi rivolgersi e cosa fare. Risulta quindi necessario promuovere maggiormente forme di aiuto e di consulenza in modo che "tale problema" e tale sofferenza possano avere il proprio spazio di ascolto, di attenzione e di cambiamento.
E questo anche per permettere di comprendere e affrontare la questione fin dalle prime fasi in modo da evitare il rischio che "il gioco venga scoperto" tardi, oppure non venga chiesto aiuto tempestivamente ma solo quando tutto è compromesso sia sul piano economico, che su quello delle relazioni familiari. Anche allora, e tante esperienze ce lo insegnano, è possibile fare molto, ma è necessario che i familiari, il giocatore e in fondo tutti noi, cominciamo a comprendere come dietro a un mondo che offre svago, illusione, facili guadagni, molte volte si nascondano e si confondano drammi, sofferenze e solitudini che hanno bisogno di altre risposte.

 

 

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