Storia e antropologia del gioco, Riccardo Zerbetto

11/08/2010

L’uomo gioca da sempre
Più che una rassegna di dati che si ritrovano in varie pubblicazioni, sul fatto che l’uomo gioca da sempre, che i cinesi e gli egiziani giocavano 5.000 anni fa, a me interessa in particolare il tema di capire se il gioco è un valore o un disvalore. Cioè quanto la storia dell’umanità ci permette di intuire quelle che Platone chiamava gli archai e che in chiave moderna uno studioso, Hillman in particolare, riconducendola ad una psicologia che chiama archetipica, ci invitano a riflettere su chi siamo.
 
Noi abbiamo un’idea dell’uomo, in base a quest’idea dell’uomo, o a un’ideale dell’uomo, facciamo delle leggi, ipotizziamo dei comportamenti, ci creiamo un codice etico e che ha ovviamente dei corollari e delle conseguenze di maggiore dolore o agio a livello individuale e sociale.
Per questo, al di là dell’affrontare concretamente le situazioni cliniche che si presentano a noi come medici, come psicologi, come psicoterapeuti, credo sia utile ogni tanto chiederci in quale contesto valoriale inserire i grandi temi di cui ci occupiamo.
E il tema del gioco pone questo quesito in modo singolarmente attuale, e ne è controprova l’ambiguità legislativa, a cui Lavanco poco fa faceva riferimento. Incremento del mercato del giocoNoi sappiamo che stiamo assistendo in questi anni a un vistosissimo incremento del mercato del gioco in Italia.
 
l’Italia non è un Paese isolato naturalmente, fa parte dell’Occidente, e un simile fenomeno è dato osservarsi anche in altri Paesi. Più o meno i tedeschi giocano la metà degli italiani, gli spagnoli giocano di più, questa impennata si è registrata negli Stati Uniti una decina di anni fa, per cui, non c’è una crescita identica nei vari Paesi dell’Occidente, anche se il trend generale è sicuramente all’insegna di questa esplosione.

Cos’è successo? Noi diciamo, sì c’è una legislazione più liberalista, ma perché non c’era prima? Noi, veniamo da 2.000 anni di legislazione repressiva nel campo del gioco, e anche questo deve farci un po’ riflettere; sicuramente il gioco è stato considerato un vizio, quindi è stata data a questo comportamento un etichetta disvalorativa. Gioco come disvalore in OccidenteSappiamo che nel Medioevo i giocatori erano perseguiti molto crudelmente, venivano additati al ludibrio pubblico, o sottoposti a scomuniche, a pene corporali estremamente forti. C’è un ottimo lavoro di Zdekhauer, questo storico del Medioevo che ricostruisce la storia della proibizione del gioco, in Italia in particolare, ma che si rifletteva anche in altri Paesi dell’Europa cristiana, come vediamo anche che il gioco è stato inibito nell’Islam. Gli arabi sono giocatori, come potenzialmente molte popolazioni, e i carovanieri in particolare usavano giocarsi il frutto del loro guadagno attraverso appunto i trasferimenti con i cammelli nel deserto, facendo un gioco in cui il cammello veniva diviso in varie parti del corpo sul quale veniva gettato un dado, e questo esponeva il fatto che chi, dopo un lungo periodo di attraversamento con dei rischi terribili, in preda ai predoni, poteva giocarsi appunto il risultato delle sue fatiche al gioco dei dadi.
Maometto in effetti mette all’indice le attività di gioco, come anche il bere e altri comportamenti.Quindi, diciamo, che non solo l’Occidente cristiano, ma tutto l’Occidente è stato contraddistinto in questo ultimo millennio, due millenni, da un sostanziale atteggiamento di abiura; anche se azzardo viene da hazard che, non a caso, è un termine appunto arabo, e al di là della repressione sociale e le leggi, il gioco è sempre esistito in modo più o meno sotterraneo. Momento liberatorio per poter poi far accettare delle norme estremamente rigideInteressante osservare che in particolare nell’Italia dei Comuni la baratteria ebbe il suo posto nella dinamica sociale e nonostante il divieto abituale veniva concesso, in alcuni periodi dell’anno, in particolare il Natale, di poter giocare. Perché il Natale? Perché il Natale corrisponde alla cristianizzazione di antiche festività che avvenivano proprio nel periodo del solstizio invernale.

Questa eccezione alla norma inibitoria aveva a che fare con il vacuum solstiziale, che era quel periodo in cui il vecchio anno finiva, e il pendolo del sole, del suo punto più basso, rimaneva per questi 12 giorni del solstizio d’inverno, per poi riprendere il suo cammino ascendente. Si dice che nelle antiche tradizioni, il vecchio re veniva deposto, sacrificato, o comunque dileggiato e estromesso e si preparavano le condizioni per la venuta del nuovo re. Ecco il fanciullo divino, il tema della venuta, dell’avvento, di un nuovo ordine, quindi sanciva un po’ il passaggio tra un vecchio ordine che moriva, e un nuovo ordine che sarebbe arrivato. Sembra chiaro il riferimento all’elemento archetipo del Natale, in cui l’attesa della novità, di quello che sarà all’insegna della luce, del benessere, della giustizia, il futuro viene investito delle aspettative migliorative, mentre il vecchio, che viene anche bruciato, il grande vecchio viene buttato dalla finestra, con le vecchie cose.

Quindi in questo vacuum solstiziale non c’è né l’ordine vecchio né l’ordine nuovo, e lì si gioca.Le regole vengono meno, e il Carnevale in fondo raccoglie questo momento di vacuità, per i greci anche gli dei andavano in Libia, quindi lasciavano il mondo senza ordine, senza quelle regole che sanciscono le divisioni di classe, di genere, quella gerarchia di potere e di norma, e in quello spazio libero da norme si scatenava questo aspetto orgiastico, caotico, il altre parole si rimescolavano le carte. Sia a livello di disinibizione sessuale che l’utilizzo di sostanze "lubrificatori sociali", come gli alcolici e le altre sostanze inebrianti, era quel momento di insubordinazione, di capovolgimento che assolveva in qualche modo a una funzione diciamo, anche omeostatica, sulla struttura sociale. Proprio perché le società arcaiche sono molto rigorosamente controllate c’era forse bisogno di questo momento liberatorio per poter poi far accettare delle norme estremamente rigide, come tutte le società arcaiche comportano.
 

Roulette biologica
Ecco però che questa antica consuetudine permane, e permane probabilmente all’interno dell’uomo a un livello che è più antropologico che storico. Nel senso che, se noi guardiamo alla funzione svolta dall’ordine e dalla categoria che a questo si associa che è la prevedibilità, l’ineluttabilità delle regole sia della natura che della società, troviamo che in realtà il mondo non viene governato solo da regole inflessibili, e senza eccezione, c’è anche l’eccezione. Nel suo famoso saggio Jacques Monod, "Il caso e la necessità", lui ricorda essendo un biologo, come anche la replicazione cellulare fa sì che le cellule il DNA e l’RNA, si replicano mantenendo chiaramente la struttura originaria, cosa che consente il fatto che le nuove cellule rispecchino la struttura di quelle da cui derivano. C’è però un quid che ogni tanto interviene, ed è la mutazione. Questo processo di mutazione non è sempre perfetto, c’è un elemento aleatorio, di caso, d’imprevedibilità che produce il mutamento. Questo mutamento è peggiorativo, può essere una cellula che in genere diventa inadatta a sopravvivere, anzi può produrre addirittura un tumore, però in certi casi questo mutamento è quello che apre una nuova possibilità, l’evoluzione procede proprio per questi scarti evolutivi, è come se in questa replicazione, nelle infinite possibilità in cui si può sviluppare, in questa roulette biologica ogni tanto viene fuori una combinazione, un numero che diventa fondamentale per uno scarto evolutivo. Aggregativi e disgregativiEcco quindi che il mondo, e questo lo diceva anche Democrito, oscilla fra queste due grandi realtà che sono le leggi eterne, immutabili: da un lato Ananke, la necessità, questa dea che è superiore agli altri dei, nel senso che neanche gli dei possono sottrarsi alle leggi di necessità, però un qualche cosa che sembra sfuggire, un qualche cosa che ripete un aspetto intrinsecamente ambiguo, duplice, perché può essere foriero di rovina, in quanto deviazione da una norma prevedibile che fino ad allora aveva dimostrato di funzionare, ma può essere anche foriera di un cambiamento evolutivo; dall’altro, lato, invece, nella visione di Empedocle, che credo singolarmente interessante, sono due le forze: una è Philotes (amicizia), quella che unisce, che richiama il termine di Philia, di amicizia, armonia, unificazione, però ce n’è anche un’altra, Neikos (discordia). Ora, anche Empedocle rappresentava Neikos come scura, e noi siamo orientati a percepirla con l’elemento negativo, diabolico, perché se la Philia è ciò che unisce, e noi attribuiamo a questo elemento un significato di valore, ecco che ciò che contrasta con la Philia può apparire il disvalore, quindi se a un attitudine noi riconosciamo l’elemento divino, di armonia amorosa, siamo portati a giudicare l’altro in modo opposto, quindi negativo.
 
Ragioniamo così in modo manicheo; Mani era un profeta iranico, che poi ha avuto grande successo nella storia del mondo successivo, perché semplifica un po’ la visione del mondo, ciò che non è positivo è negativo. Quindi se l’armonia, ciò che aggrega è positivo, ciò che disgrega è negativo. Se però noi guardiamo il mondo della realtà fisica, noi vediamo che siamo esposti, così come tutti gli elementi, a fenomeni aggregativi e disgregativi. Anche a livello psicologico, sarebbe un grave danno che un ragazzo quando raggiunge l’età giusta, non si disaggreghi dalla sua famiglia d’origine; quindi la differenziazione, la separazione fa parte intrinseca del processo evolutivo, sia a livello materiale, biologico che psicologico. Quindi ecco che questi due elementi, se noi li vediamo in senso manicheo, vero-sbagliato, giusto-erroneo, divino-diabolico, siamo portati facilmente a considerare come negativo ciò che non è positivo.
Da contrapposizione valoriale a cambiati atteggiamenti verso il rischio.Però in una considerazione dinamico-polare, come si dice, vediamo che le cose sono un po’ più complesse; il gioco è un comportamento, si dice, a rischio. Come mai il mondo di adesso ha riscoperto il piacere di questo comportamento e noi diamo per scontato che non si possa più essere proibizionisti? A noi sembra quasi ovvio, l’abbiamo sentito questa mattina da più parti; ma fino a qualche anno, a qualche decennio o secolo fa non era per niente ovvio.Cosa è cambiato quindi a livello di strutture culturali che ci porta a essere più inclini, a essere permissivi e tolleranti rispetto a questo elemento che può produrre, in certi casi, danni così vistosi agli individui, alla collettività?

Penso che il tema vada ricollegato ad una generale attitudine che sta cambiando nei confronti del rischio in sé. La cultura che ha dominato in questi secoli e millenni, metteva in luce come valore la conservazione, la sicurezza e l’evitamento del rischio, dell’elemento catastrofico. La ri-voluzione o la e-voluzione, sappiamo che può essere catastrofico, come la Rivoluzione francese, però può essere uno strumento di rinnovamento, di cambiamento, quindi anastrofico. Adesso, anche a livello etico, e quindi di comportamenti socialmente proposti o imposti, da una cultura e da una legislazione, noi vediamo che è fondamentale la discriminante che passa sotto il significato quindi la costellazione valoriale in cui noi inseriamo l’elemento mutamento o stabilità.

Mantenimento dell’ordine costituito o apertura alla sua mutazione, al suo cambiamento. L’accelerazione a cui è andata incontro la società moderna, è tale, rispetto alle società più arcaiche, che i processi di cambiamento, non solo sono diventati parte intrinseca del nostro modo di muovere, di operare, di concepire, ma da disvalore sono diventati sempre di più valore.

Cambiare lavoro, cambiare città, cambiare modo di pensare, di vestire. Prima il valore era adeguarsi a un modello dato per accettato, condiviso, e quindi sacralizzato nel suo valore di perpetuazione. Adesso è come se il valore fosse il cambiare invece, ciò che abbiamo ereditato. E quindi anche a livello sociale, s’è insinuato fino ad affermarsi il contro-valore del rischio, del cambiamento, cioè della capacità di accettare la sfida di non vivere di rendita rispetto a un ordine costituito, ereditato. L’adattamento e l’affronto creativo, la sfida appunto del cambiamento e dell’evoluzione. Gioco d’azzardo nel contesto dei comportamenti a rischioIl gioco d’azzardo non si può intendere se non nel contesto valoriale più allargato dei comportamenti a rischio. Rolando De Luca che oggi non è presente, uno non solo studioso ma che ha dato un grossissimo contributo anche a livello di proposta terapeutica, dice, sì un giocatore può anche smettere di giocare, però magari è un imprenditore d’azzardo, va a mettere su una fabbrichetta nel Mozambico dove nessuno tutelerà i suoi patrimoni, le leggi eccetera, magari ha anche successo, ma il suo stile di vita è del giocatore d’azzardo, anche se non va al casinò.

E lì la difficoltà a capire quanto questo comportamento, questo modo di essere, va mortificato, identificato negativamente in qualche modo recepito come elemento strutturale del carattere di questa persona. Ma senza giocatori d’azzardo?
Se noi pensiamo, per esempio, a come la Terra si è popolata immaginando le isolette delle Cicladi, del Pacifico, Rapa Nui. Questo film che fa vedere l’Isola di Pasqua, che a un certo punto raggiunge una densità demografica limite, quindi non ci si sta più in quest’isoletta, quindi ci vuole qualcuno che prenda una barchetta e vada e cercare un'altra isola, chi lo fa? Il più stupido, il più furbo, il più coraggioso, quello che c’ha il gene, che adesso è stato identificato, del giocatore d’azzardo? Ecco che si ripropone l’eterno gioco, lascia o raddoppia, lui può andare in pasto ai pesci, perché parte con la sua piroga, affrontando l’oceano e magari non la trova quest’isola, però se la trova diventa il re dell’isoletta che lui ha colonizzato.

Anche i topolini di fronte a un cibo che non conoscono, selezionano il topolino sperimentatore: se lui avrà sfortuna perché è cibo avvelenato, morirà, se invece lui avrà scoperto che quel cibo è commestibile avrà salvato, non solo sé stesso ma tutta la tribù dei topolini a cui appartiene.Adesso il nostro problema è quindi intanto recepire il fatto che esiste questa variante. Alcuni personaggi, alcuni caratteri, o per una nevrosi e perché hanno un profilo di personalità problematica, perché la mamma, il papà, aspetti su cui non mi soffermerò, e che pure sono importanti, hanno questa propensione.

Ma questo non basta, il problema è capire come aiutare questa persona a convivere con questa inclinazione che può ritorcersi in modo fortemente autodistruttivo, ma che in certi casi può essere anche all’origine di un suo stile, di un suo modo di essere che può avere anche aspetti interessanti. Una cultura del giocoEcco allora che noi abbiamo bisogno di una cultura del gioco, e questo credo che sia il punto cruciale, cioè dobbiamo sottrarre il gioco a un ambito disvalorativo e quindi contro-culturale. Dobbiamo tirarlo fuori dalle bische dove il comportamento del gioco avviene al di fuori di una possibilità di gestione consapevole, di fronteggiamento, di monitoraggio, e confrontarci in modo esplicito, consapevole, alla luce del sole, con questo comportamento, con questa inclinazione che, come sappiamo, esiste con l’essere umano. La conclusione di un grande studioso, forse il più grande che abbiamo avuto sul gioco, Huizinga, è che non è che l’uomo gioca, e che noi siamo uomini in quanto giochiamo. Perché ciò che ci distingue dagli animali non è che giochiamo, perché anche glia animali giocano, però il gioco umano è il gioco coi simboli, con la previsione, neanche con la simulazione, perché anche gli animali si mimetizzano, cambiano colore, si immobilizzano. Il gioco, quello della previsione del simbolo, la capacità di prevedere il futuro implica uno sviluppo delle capacità cognitive, di previsione, di anticipazione che è squisitamente umano.

Quindi come noi diciamo homo faber o sapiens, possiamo dire homo ludens. Gli dei giocano, cioè la rappresentazione idealizzata che noi abbiamo dell’uomo, è un dio che gioca. Il problema è come giocare divinamente, non diabolicamente.

Questo implica però che noi dobbiamo estrarre la categoria gioco e anche del gioco a rischio, da un tabù a priori, che lo mette in una zona d’ombra. Dobbiamo confrontarci con la difficoltà che questo comporta, con un elemento come l’energia atomica, come il motorino per mio figlio quando ha l’età che vuole il motorino, come in altri comportamenti come il mangiare e il bere, e solo affrontandoli in un ambito culturale valorativo, forse, come individui, come famiglie, come società, potremo in qualche modo pilotare. Accettare il rischio del vivereIn questo senso mi permetto di riprendere il tema delle sigarette. L’avvertimento che fanno venire il tumore, indubbiamente è una contraddizione, però ripropone il tema fortemente conflittuale di una legislazione chiara. Ma cosa vuol dire questa chiarezza? Se il paradigma è quello della coerenza, cosa vorrebbe dire uno Stato coerente? Che non permette la vendita di sigarette che fanno venire il tumore. O dobbiamo invece noi accettare l’intrinseca ambivalenza, che ogni cosa può fare bene o male, dall’automobile al motorino, al salamino, alla nutella, all’alcool, al sesso, al gioco?Noi siamo vittime di una concezione platonica del mondo per il quale dovevamo aspirare al sommo bene, ma un proverbio popolare, senese credo, ma universale, dice che il meglio è nemico del bene. Per aspirare a questo meglio, a una società idealizzata in cui non c’è rischio, non c’è peccato, non c’è eccesso, noi dovremmo togliere tutto praticamente, e che ci rimane…la pasta e fagioli forse…Anche nella concezione della cultura religiosa cui apparteniamo l’Eden era costruito secondo uno schema platonico di una società perfetta, proibizionista e paternalistica. A me sembra che anche Jahve accettasse il rischio: mettere un albero con i frutti del bene, del male, della conoscenza, voleva dire esporre i nostri progenitori a un rischio che di fatto è stato corso.

Con le conseguenze negative e positive. Erich Fromm dice che se i nostri progenitori non avessero preso quella mela non saremmo qui, nel senso che saremo rimasti nell’Eden…

Quindi, anche con i nostri figli noi non possiamo presumere di preservarli dal rischio fondamentale che è quello del vivere. Una madre rischia quando mette al mondo un figlio e noi rischiamo venendo al mondo, è un rischio tremendo. Se noi abbiamo una cultura che vuole evitare il rischio, che lo vede in modo fobico, che ha il tabù del rischio, corriamo sì il rischio di una situazione d’iperprotezione. Qui si produce un clima in cui questi adolescenti attraversano la strada col semaforo rosso a tutta velocità. E’ quasi un overdose di rischio, compensativo a un’eccesso di rassicurazione, di protezione. E’ per una cultura esistenziale del rischio per la quale invece noi dovremmo attrezzarci nuovamente, a dare delle indicazioni formative e costruttive. Da qui nasce anche una delle finalità della nostra associazione di promuovere una cultura del gioco. Cosa vorrebbe dire fare la prevenzione dal rischio patologico nelle scuole, semplicemente ripetere non fare questo, non fare questo, non fare questo o dire cosa sarebbe il valore del correre dei rischi ragionevoli. Il nostro mammismo, il nostro paternalismo iperprotettivo spesso fa sì che noi inibiamo una crescita consapevole, responsabile, di confrontarci con un elemento sì pericoloso ma non per questo da evitare.

C’è stato un bellissimo congresso due anni fa organizzato da Civiltà Cattolica e dalla Treccani, sul vino mistero divino. Noi siamo vittime di una cultura di importazione degli Stati Uniti: in tutti film che vediamo c’è l’ubriacone e quello super sobrio, lo sceriffo con gli occhi azzurri buonissimo, bravissimo e il pistolero psicopatico. La cultura europea non è questa. Torniamo all’elemento di Dioniso, era quello che si alzava in piedi dopo un simposio, Dioniso. Un barbaro, invece, beveva un vino non annacquato, cadeva per terra e vomitava. Ma questa vuol dire una cultura del confrontarsi-con, in modo che rientri appunto in una cultura, in un’educazione. Quindi penso che il gioco, che è un po’ meno minaccioso che la droga, potrebbe darci una grande chance, per una ridefinizione dei nostri paradigmi culturali, che ci permettano di giocare d’anticipo. Non soltanto correre dietro a quelli che si sono rovinati, ma introdurre una ludo terapia, una cultura del gioco che a livello sociale possa creare le premesse per contenere anche gli inevitabili smagliature che in ogni società e in individui predisposti più fragili possano realizzarsi.

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