Costretti a giocare: il giocatore compulsivo, Michele Sforza

11/08/2010

La letteratura sul gioco ci mostra che questo fenomeno è stato osservato e indagato a partire da diverse prospettive: storico-letteraria, socio-antropologica, psicoanalitica, pedagogica, linguistica, etologica, sperimentale e, più recentemente, clinica.
Questo fiorire di indagini e la varietà dei punti di osservazione denotano come il fenomeno si allarghi a coinvolgere campi estremamente diversi e apparentemente poco collegati gli uni agli altri. Il gioco sembra attraversarli longitudinalmente, accomunandoli in una sovradimensione. Per interessare settori così diversi, le funzioni del gioco devono essere quindi molteplici e ne abbiamo riprova esaminando la polisemia e l’ambiguità della parola che descrive questa funzione. La parola gioco, infatti, come avviene anche in altre lingue, ad esempio per l’inglese play o per il tedesco spiel, assume una quantità di significati diversi che vengono utilizzati per descrivere attività ed esperienze ludiche altrettanto diverse.

Procederemo quindi partendo da un inquadramento teorico del concetto di gioco e dalla descrizione delle sue caratteristiche, per passare infine a osservare come dall’attività ludica "normale" si possa manifestare, in alcune persone, un approccio patologico con caratteristiche di compulsività e di dipendenza.

Il gioco è una forma di attività comune sia agli esseri umani che al mondo animale. Numerosi sono gli studi e le osservazioni fatti dagli etologi e dai primatologi. Questi ultimi, in particolare, hanno osservato e descritto nei primati una notevole varietà di attività ludiche che assumono significati diversi. Nel gioco dei primati sono state descritte, soprattutto nei soggetti giovani, funzioni relative all’apprendimento. Si è visto che i giovani scimpanzé osservano attentamente i comportamenti degli adulti per poi riportarli nei loro giochi, al fine di esercitarsi a ricreare e utilizzare quelle strategie che saranno proprie dell’età adulta.

La modalità ludica compare anche nelle strategie usate per la soluzione dei conflitti che sorgono all’interno del gruppo per l’attribuzione dei ruoli sociali, per l’accoppiamento e per la difesa del territorio. Nei babbuini sono stati osservati scontri ritualizzati sotto forma di balletti stereotipati e apparentemente buffi, che rappresentano "giochi di guerra". Un’attività, quindi, che simula la guerra, ma senza produrne le conseguenze letali, e che ha lo scopo di appianare, senza spargimento di sangue, le dispute all’interno del gruppo. Così pure l’espressione di atteggiamenti minacciosi, attraverso il linguaggio del corpo, prende significato e funzione di lanciare avvertimenti, allo scopo di dissuadere il nemico dallo scontro diretto. La minaccia non è l’aggressione ma "sta per" l’aggressione, simula ed esprime un comportamento che non è ancora presente ma che potrebbe eventualmente comparire in futuro. Questo gioco di mettere in scena un comportamento rappresenta una forma di comunicazione che si realizza attraverso metasegnali e si traduce in vantaggi per la difesa e la sopravvivenza del soggetto e di tutto il gruppo. Sembra quindi plausibile che la funzione del gioco possa ricoprire un ruolo significativo nella costruzione dell’attività simbolica e del linguaggio, che nell’uomo porterà al più complesso fenomeno dell’astrazione e della cultura come aspetto della dinamica dei simboli.

Anche in altri animali, oltre ai primati, si osservano scene di gioco finalizzate a obiettivi diversi, ma che sono, in ogni caso, orientati verso l’adattamento della specie a una sezione dell’ambiente naturale e alla costituzione delle relazioni fra individui (Bruner, 1975).
Nell’uomo la natura dell’attività ludica è ancora più complessa ed è talmente importante da costituire una vera e propria Weltanschauung, un modo di vedere il mondo e di stare al mondo. Questa particolare forma di attività caratterizza l’essere umano in modo specifico tanto che lo storico olandese Huizinga la considera una qualità costitutiva fondamentale. Egli ha parlato quindi della qualità di homo ludens da accostare a quella di homo faber per rafforzare e potenziare il concetto di "uomo produttore". Anche molti animali hanno la capacità di essere faber, cioè produttori, ma nell’uomo questa funzione assume una complessità particolare, che Huizinga attribuisce proprio alla "qualità" ludens dell’essere umano. Nel suo notissimo saggio (Huizinga, trad. it., 1982) parte proprio dalla convinzione che la stessa «civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco».

Nel gioco e col gioco l’essere umano realizza il fare, il costruire, che si manifesta in forme specifiche nelle svariate attività umane, coinvolgendo sia la realtà interiore che la dimensione sociale. Nell’uomo il gioco assume infinite forme e funzioni: diventa esercizio preparatorio ai diversi compiti esistenziali (biologici, sociali, relazionali, culturali), serve ad appagare i bisogni fondamentali del controllo sulle cose, del bisogno di dominare, di competere e misurarsi, di autoaffermarsi attraverso la sfida. Serve anche a concedersi svago, sollievo in forma di autogratificazione.

Per Piaget (1970) il gioco consente al bambino l’assimilazione dell’esperienza ai propri schemi mentali circa l’ambiente che lo circonda. È indispensabile all’individuo, oltre che per i suoi compiti biologici, per i legami che il gioco crea, per la sua funzione di elemento essenziale per la nascita della cultura. Le funzioni di rappresentazione simbolica si incarnano nelle forme dell’arte esprimendosi attraverso gli strumenti della drammaturgia, poesia, teatro, musica, architettura, scultura, e così via. Si spingono perfino a dare forma ai riti, alle sacre rappresentazioni, ai miti.

Il bambino fa esperienza
Sul piano psicologico, oltre all’aspetto della gratificazione, il gioco assume ruoli sostanziali nel processo formativo dello sviluppo della mente e della personalità.
Per Bruner uno dei compiti del gioco del bambino è quello di esercitarsi ad assumere dei «...ruoli all’interno di quella che egli gradualmente impara essere la versione della realtà data dalla sua società», e di costruire una sua identità proprio «all’interno dei ruoli e delle tecniche che sono a sua disposizione».
Contributi fondamentali sono venuti da Winnicott, Anna Freud, Melanie Klein sul ruolo che il gioco riveste nell’economia della psiche infantile. Per Winnicott (1981) l’esperienza ludica è fondamentale per creare quell’area "intermedia" fra madre e bambino, un’area dove si origina l’idea del magico e dove il piccolo può fare esperienza, in un luogo protetto, del controllo sugli oggetti, per imparare a riconoscere il passaggio fra realtà interna ed esterna. Questa esplorazione permette al bambino, secondo Winnicott, di sperimentare sensazioni di onnipotenza connesse al controllo degli oggetti transizionali e della comunione con la madre. È l’area dove si crea «una linea diretta di sviluppo dai fenomeni transizionali al gioco, e dal gioco al gioco condiviso, e da questo alle esperienze culturali».
Per M. Klein (1969) il gioco infantile rappresenta il terreno nel quale il bambino riversa tutto sé stesso e dove può manifestare vissuti altrimenti inesprimibili. Il gioco rappresenta per la Klein l’equivalente delle associazioni libere dell’adulto e diventa pertanto una via privilegiata per la comprensione psicodinamica del bambino e per la sua cura. Anche Anna Freud (1970) si inserisce sulla stessa linea teorico-clinica e considera il gioco infantile indispensabile per comprendere il vissuto del bambino proprio per la sua impossibilità di utilizzare codici linguistici e verbali più elaborati.


Elementi comuni e condivisi
Il fatto che il gioco sia in grado di permeare e dare forma a funzioni così diverse ci induce a pensare che alla base di tutte ci sia un comune denominatore sul quale si costruisce una specifica attività. È quindi lecito chiedersi quale possa essere il procedimento che caratterizza l’attività ludica e che diventa elemento comune e condiviso. Per capirlo ci sarà utile esaminare alcune caratteristiche del gioco che ci renderanno conto dei meccanismi fondanti.

Ci sono dei postulati da cui bisogna partire: innanzitutto il fenomeno del gioco si può presentare solo se i giocatori sono capaci, in qualche misura, di metacomunicare (con altri e con sé stessi) cioè di scambiarsi i segnali che portano il messaggio «questo è un gioco». Vale a dire possedere la consapevolezza che «le azioni che ora stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero quelle azioni per cui esse stanno» (Bateson, 1975). Il gioco si basa pertanto su livelli diversi di comunicazione e di consapevolezza: il giocatore prova contemporaneamente la certezza che l’attività che sta facendo (il gioco) è reale perché fatta di azioni, di movimenti, di "gesti" attuati con grande concentrazione, impegno, serietà, pur nell’ambito di un aspetto gratificante, giocoso. Ma allo stesso tempo ha la coscienza che le sue azioni non sono vere in quanto appartengono alla finzione del gioco. Il giocatore quindi è (e deve essere) consapevole della distinzione fra "gioco" e "non gioco", fra realtà e fantasia.

Il fenomeno si sviluppa in un’area particolare che si situa fra il concreto e l’immateriale (Huizinga), fra il mondo interno e il mondo esterno (Winnicott). È una zona "convenzionale" che, pur godendo del diritto di extra-territorialità dal mondo reale, non è meno "vera" della realtà esterna. La costruzione di quest’area parte da una negoziazione che il giocatore fa con sé stesso o con altri giocatori per stabilire e concordare i parametri del setting dell’area di gioco.

Una frase tipica che usano i bambini nei loro giochi di ruolo è questa: «Facciamo che eravamo...». In questo modo costruiscono la "scena" del gioco, le regole e i ruoli che intendono ricoprire.
Lo stesso uso del verbo coniugato all’imperfetto, per collocare un avvenimento che si svolge al presente, è indicativo della "finzione" che situa gli eventi in un’area virtuale e in un tempo indefinito.

Per inquadrare meglio i confini e il significato di quest’area può venirci in aiuto il termine tedesco spielraum (spazio del gioco), che significa, appunto, spazio di libertà ma nell’ambito di limiti prestabiliti. In questo spazio è indispensabile al giocatore godere di un margine di libertà, di variazione (leeway) come pure è indispensabile la limitazione del campo a opera di regole ben precise. In assenza di libertà per il giocatore o di regole del gioco, quest’ultimo non può sussistere. Il gioco, per essere tale, deve svolgersi entro limiti di tempo e di spazio determinati e avere regole molto chiare e ineludibili.

È questa l’impalcatura su cui la costruzione del gioco si regge. La messa in dubbio delle regole farebbe subito crollare tutto il mondo del gioco. Questo spazio "speciale" è creato dal giocatore con il meccanismo comunemente definito illusione (in-lusio = essere nel gioco) che è l’espressione di un’attività della mente umana che permette di mettere un piede nell’irrealtà pur senza delirare. È l’attività che caratterizza l’atto creativo, la capacità di "immaginare" situazioni e realtà non ancora presenti, di costruire scenari per prevedere, fare ipotesi e congetture. È la base fondamentale per esplorare nuove conoscenze, approfondire quelle esistenti, e accostarsi ad altre esperienze di carattere simbolico, immateriale, spirituale. È il mezzo con cui ci proiettiamo nel futuro e verso mondi sconosciuti con progetti, piani e intenzioni. Ed è anche ciò che ci fa sopravvivere consentendoci di prevedere, prefigurandoli, pericoli e situazioni rischiose. Rappresenta, infine, ciò che conforta e arricchisce la nostra esistenza permettendoci di vivere la speranza, i desideri, i sogni, le fantasie.


Una volta creato il "nuovo mondo" del gioco, il soggetto vi si immerge totalmente, ne viene completamente assorbito, diventa un personaggio che fa parte integrante di quel mondo, pur mantenendo sempre la sensazione che – secondo quanto scrive Huizinga – «questo è solo un gioco». Il soggetto sa che sta «facendo per finta» o «per scherzo». Il gioco è intenso, coinvolgente, provoca tensione e grandissima partecipazione emozionale, è tremendamente serio anche se contiene elementi di divertimento e di giocosità. Il poeta Pascoli scriveva: «Nel gioco seri al pari di un lavoro». E tutto questo avviene pur non essendo "vita ordinaria", "vera", anzi essendo un allontanamento da quella.

Le categorie di Callois
Se mettiamo la nostra attenzione su quelle particolari forme in cui il fenomeno generale del gioco si incarna, ci troveremo di fronte alle svariate attività ludiche che sono comunemente presenti nella nostra esperienza: i giochi.
Callois già nel 1958 raggruppava i giochi sotto 4 grandi categorie: giochi di Agon (competizione), Mimicry (imitazione), Alea (rischio), Ilinx (vertigine). Se anche vogliamo tralasciare altre categorie di attività ludiche che punteggiano la nostra vita e vogliamo fermarci a queste quattro, che abbracciano un vasto arco di possibilità concrete di gioco, vediamo che ciascuna di queste va a soddisfare uno o più bisogni fondamentali per l’uomo. I giochi di competizione soddisfano bisogni di autoaffermazione, senso di controllo sulla realtà, senso di potenza. È facile pensare a quanto questa modalità connessa con l’aggressività sia fortemente collegata ai bisogni fondamentali dell’essere vivente (sopravvivenza, nutrizione e riproduzione).

Un individuo capace di buona efficienza nel raggiungere questi obiettivi avrà maggiori possibilità di sopravvivere e riprodursi. Potrà infatti difendersi efficacemente, fuggire, procurarsi il cibo predando e difendendo il territorio di caccia e avere migliori probabilità di riprodursi (sarà più ambito e potrà difendere il partner da altri pretendenti). Sono strategie premiate dalla selezione naturale, in quanto strettamente legate all’adattamento, ed é quindi naturale che queste strategie siano "premiate" anche nell’individuo da rinforzi positivi.

I giochi basati sul rischio producono eccitazione e susseguente gratificazione quando la risposta é appagante. Si connettono alla sfida, alla gara con altri contendenti o con il Fato, mirano a dimostrare la propria forza e superiorità e a procurare l’illusione di «controllare l’incontrollabile» (Sarchielli, Dallago, 1997). Sono emozioni che comportano l’utilizzo del "pensiero magico" e che soddisfano bisogni di controllo onnipotente. Il senso di appagamento del giocatore che vince dopo aver puntato sulla sua previsione, produce emozioni di trionfo che spesso vengono descritte come sensazioni orgasmiche.

I giochi di vertigine si collegano alla ricerca del brivido e sono connessi alla dimostrazione di coraggio, di rituali di iniziazione, di predominio sociale, di rendersi appetibile nella ricerca del partner.
Pur nella loro diversità e nella variabile combinazione di bisogni appagati, tutte le categorie dei giochi hanno l’obiettivo di soddisfare bisogni della persona. Sono bisogni diversi per i vari individui e addirittura diversi nello stesso individuo nel corso della sua vita. L’obiettivo é in ogni caso lo stesso.

Perché si gioca?
Se il gioco riesce a soddisfare l’ampio ventaglio di necessità (da quelle biologiche a quelle esistenziali) possiamo dedurne che la gente gioca perché ne ha bisogno. E quando dei bisogni vengono soddisfatti se ne ricava un grande benessere, un profondo appagamento psichico e fisico. Tale appagamento serve a ricompensare gli sforzi fatti e a motivare le azioni future. I percorsi che abbiamo utilizzato per ottenere i nostri obiettivi vengono "premiati" e quindi rafforzati nella nostra memoria e nelle nostre esperienze. Le strategie usate vengono privilegiate rispetto ad altre che, meno efficienti, vengono abbandonate.
Non possiamo ignorare, a questo punto, che una delle caratteristiche fondamentali del gioco è proprio l’aspetto divertente, gratificante. Perfino le emozioni di tensione, paura, brivido di certi giochi sono fonte di gratificazione sia perché vengono percepite come stimolazione gradevole in sé, sia perché sono, in previsione, seguite da appagamento.
 
Il fenomeno del gioco non sarebbe assolutamente comprensibile, né potrebbe esistere al di fuori di una risposta gratificante.
Come mai il gioco da attività utile, addirittura indispensabile e fonte di tante utili gratificazioni, si può trasformare in un’attività patologica ripetitiva? Attualmente sappiamo che la percezione ed elaborazione delle sensazioni di piacere, sia che esse provengano da stimoli chimici (droghe e sostanze psicoattive in genere) sia da stimoli comportamentali (come è appunto il gioco), è mediato da complessi sistemi neuronali e neurotrasmettitoriali. Tali sistemi prevalentemente hanno sede nell’area ventrale tegmentale, a livello mesencefalico dove prendono origine neuroni dopaminergici che hanno come bersaglio altri neuroni situati in altre regioni cerebrali come il nucleo accumbens e la corteccia prefrontale mediale. In particolare l’area denominata conchiglia del nucleo accumbens è deputata a mediare le funzioni di ricompensa del cervello. Vale a dire che sostanze chimiche o comportamenti in grado di stimolare risposte gratificanti vengono "premiati" attraverso un rinforzo che darà a quei circuiti neuronali maggiore forza e precedenza su altre afferenze. Infatti è il meccanismo fisiologico della memoria e della motivazione che ci spinge ad agire e a ripetere i comportamenti risultati utili.
La ripetizione dura fino a quando un meccanismo inibitorio (comunemente detto sazietà o appagamento) non frena la ripetizione, arrestandola.
Se compare la dipendenza
In alcune persone si ipotizza che il blocco della ripetizione non funzioni adeguatamente e che, pertanto, il comportamento si reitera all’infinito senza potersi mai appagare fino a trasformarsi in un loop inarrestabile. L’alterazione di questo elaborato meccanismo dovuta a complessi disturbi neutrasmettitoriali (convolgimento di serotonina, noradrenalina, dopamina, Gaba), ad aspetti genetici (alterazioni di geni che concorrono a codificare recettori della dopamina) e ad altri complessi fattori psicologici, sociali e relazionali appare responsabile del fenomeno dell’addiction.
La causa della dipendenza patologica é quindi la risultante di una serie di fattori predisponenti bio-psicosociali che, in presenza di uno stimolo scatenante, danno origine alla patologia compulsiva conclamata. Solo la concomitanza di questi fattori può spiegare l’insorgenza della malattia. Si é visto infatti che uno solo dei fattori predisponenti non é in grado di precipitarla.
Quando la malattia compare, si manifesta con le caratteristiche tipiche di tutte le dipendenze: assuefazione (il giocatore deve giocare sempre di più), perdita del controllo (il giocatore non può evitare di giocare e di fermarsi quando inizia), sindrome di astinenza (il giocatore sta male fisicamente e/o psichicamente se non gioca), craving (bisogno compulsivo di giocare).
In presenza di queste manifestazioni il gioco non esiste più, vengono a mancare le premesse indispensabili perché quell’attività sia un gioco: manca la libertà del soggetto, ormai schiavo della compulsione, mancano le regole di spazio e tempo prestabilite, manca la possibilità di uscire dal gioco quando lo si desidera. Come abbiamo visto, senza le regole di un setting definito, la dimensione ludica crolla e ci lascia di fronte a una situazione molto diversa.
È la situazione di una terribile malattia in grado di devastare la vita del soggetto, quella dei suoi cari e quella di tante altre persone che gli ruotano intorno nell’ambito sociale.

 

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