Venerdì 17, non ci credo. Ma...

La superstizione, soprattutto in tempi di crisi, contagia tutti, colti e meno colti. È sbagliato pensare che sia innocua...

Così lo sport esorcizza la paura

17/05/2013
Laurent Blanc bacia la "pelata" di Fabien Alain Barthez.
Laurent Blanc bacia la "pelata" di Fabien Alain Barthez.

Vincere, spesso, vuol dire vincere la paura di non essere all’altezza del qui e ora che gli appuntamenti dello sport impongono, a volte in modo inesorabile. Si pensi alla finale olimpica, ai rigori che decidono un Mondiale di calcio. Sono l’emblema dell’occasione di una vita, che viene una volta sola e poi sfuma. O l’afferri o fallisci, per sempre, il tuo momento della verità. E allora esorcizzare in qualche modo la paura diventa il primo dei problemi, il che spiega piuttosto bene il dispiegamento di gesti volti a scacciare gli influssi maligni, la jella e tutti sinonimi più o meno triviali della sfortuna, cui assistiamo sui campi sportivi.

Non potendo allontanare la paura che la prova comporta ci si aggrappa dove si può. Chi crede scende a patti con chi comanda in cielo: Maradona da Ct dell’Argentina ai Mondiali 2010 andava in panchina con il crocifisso, Evgeni Plushenko, stella polare del ghiaccio a Torino 2006, andò a ringraziare per il successo con un segno della croce ortodosso, proprio nel punto preciso della pista in cui aveva rischiato di cadere e rovinare tutto. Il campionario dei segni religiosi è lunghissimo. E chiama in causa una domanda da un milione di dollari: per chi tifa il Padreterno? E l’altra, ancora più impegnativa che sorge di conseguenza: chi marca, sui campi di gara dove al segno della croce dell’inizio può seguire l’imprecazione dopo il calcione rimediato, il confine tra fede e scaramanzia? A che punto della scala si colloca, per esempio, l’acqua santa di Trapattoni?

Se il campo semantico, per così dire, religioso è diffuso ma ristretto a pochi segni da tutti identificabili, quello dei rituali che potremmo chiamare pagani è pressoché infinito, soggettivissimo, il più delle volte riconoscibile nella reiterazione ma misterioso nei simboli. Un bailamme di riti, di gesti, di tic, nati il più delle volte, per caso, dalla coincidenza di averli compiuti per la prima volta in una circostanza rivelatasi poi fortunata e all’infinito ripetuti per ripropiziare la buonasorte, all’insegna del “chissà se è poi stato quello? Ma non si sa mai”.

Si pensi al bacio stampato da Blanc sulla pelata del portiere della Francia Barthez, cominciato al Mondiale 1998, vinto dai francesi, e terminato con il ritiro dal calcio giocato di Blanc. Ma vale anche per il tormentone di Alberto Tomba al telefono con il padre dopo ogni vittoria: «Papà, pianta la pianta!», che nella sintesi non si sa quanto consapevolmente comica di Alberto era l’invito, rivolto al padre in diretta, a piantare un nuovo albero in giardino. L’aveva fatto papà Tomba di propria iniziativa dopo la prima inattesa vittoria in coppa di un giovanissimo Albertone ed è subito diventato un rito: «Papà, dai che facciamo un bosco». 

Altre volte invece il rituale si ripete come un mantra mille volte in una partita, si pensi a Rafa Nadal che prima di servire si toglie la terra dalle scarpe, si aggiusta, con rispetto parlando, i boxer, i calzini e la fascetta sulla fronte, fa rimbalzare la palla una decina di volte con la racchetta, e poi finalmente, dopo averla fatta rimbalzare altre volte con la mano libera, batte. In questo caso è probabile che la sequenza serva più ad accendere l’interruttore della concentrazione che a chiedere alle stelle l’ennesimo ace.

Ecco sì, forse quella degli sportivi è una scaramanzia al contrario, non cerca di allontanare il carico di malasorte – perché non si sceglie il giorno e l’ora e neanche il numero di partenza e un venerdì 17 ci può sempre scappare - ma di propiziare quella buona. Avevano certamente questo fine i due numeri separati da un punto che la Juventus di qualche anno fa usava scriversi sulle mani. A chi osava chiedere spiegazioni rispondevano: «E’ un rito scaramantico, Ma non possiamo spiegare il significato dei numeri altrimenti non funziona più».

La buonasorte del resto, che si sappia, è l’unico aiutino che l'antidoping non indaga. Arrigo Sacchi, allenatore di un Milan stellare, del resto, non ha mai fatto mistero di ritenerla uno dei tre ingredienti indispensabili della ricetta del pallone vincente: «Occhio, pazienza e b…». B…uonasorte. Anche se per la verità lui la chiamava in un altro modo, un po’ meno aulico.

Elisa Chiari

a cura di Paolo Perazzolo
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