02/11/2012
Se dunque, nel Dna (forse dimenticato?)
dell’islam è già iscritta la regola
della tolleranza tra le religioni, come
viene declinato il tema nell’ebraismo?
«Il verbo “tollerare” nella Bibbia» precisa
Elena Lea Bartolini De Angeli, docente
di Giudaismo ed Ermeneutica
ebraica presso la Facoltà Teologica
dell’Italia Settentrionale, sede di Milano,
«è espresso secondo due radici
particolari, che apparentemente sembrerebbero
esprimere due significati
diversi. La prima radice (nasa’), la più
usata a livello biblico, rimanda al significato
di alzare la voce, levare lo sguardo,
guardare oltre.
«La tolleranza implica dunque
un’idea di guardare fuori per rendersi
conto di chi ho di fronte. Tollerare,
in questo contesto biblico, significa
anche accogliere, assumere. In Isaia
53 il termine comprende il significato
di “portare il peccato di molti”. La seconda
radice, più usata nell’ebraico
attuale, è saval. In questo caso la tolleranza
comprende la pazienza, la sopportazione,
la condivisione. In entrambi
i casi il campo dei significati è
ampio, e non intende la tolleranza come
la semplice convivenza, gomito a
gomito (ma sostanzialmente indifferenti)
con qualcuno. Implica il portare
il peso dell’altro, comporta un incontro,
una presa di coscienza. Fino
alla condivisione».
Proprio perché condivisione di un
peso – biblicamente del peccato – l’intolleranza,
la mancanza di rispetto reciproco
è un peccato contro l’uomo e
contro Dio, in virtù dell’impegno di
pace e di fraternità che lega il genere
umano. Un orizzonte, questo, che viene
dilatato a dismisura dal cristianesimo,
che impone addirittura il comando
rivoluzionario dell’amore verso il
nemico («Amate i vostri nemici, fate
del bene a coloro che vi odiano, benedite
coloro che vi maledicono, pregate
per coloro che vi maltrattano», Lc 6).
Insomma, per vivere in pace, per
poter stare accanto ad altri uomini di
fedi e culture diverse, non basta la tolleranza,
pur nel quadro di un sistema
di regole che ne determini diritti e doveri.
Occorre qualche passo in più.
«Sento spesso rispolverare l’antico
concetto illuminista e razionalista di
“tolleranza” come buon strumento di
mediazione in un contesto di pluralismo
religioso», reagisce fra Claudio
Monge, islamologo domenicano che
vive a Istanbul in Turchia, «e ho l’immediata
sensazione di una soluzione
di basso profilo propria di chi non crede
veramente a un dialogo possibile.
Eppure in un’epoca segnata dalla pluralità
delle culture, dove fedi e convinzioni
diverse si confrontano (quando
non si affrontano) in uno stesso piccolo
ambiente di vita, il dialogo non è
un errore di strategia e neppure un
lusso, ma si impone come una necessità.
Non si tollera qualche cosa che si
considera di vitale importanza, la si
condivide. Allo stesso modo, se si contesta
la verità di una posizione alla quale
si è confrontati, non sarebbe serio,
né verso se stessi né nei riguardi di colui
che consideriamo eventualmente
nell’errore, se non cercassimo di fargli
riconoscere la validità delle nostre
posizioni. Che senso avrebbe tollerare
il fatto che qualcuno possa continuare
a vivere ignorando ciò che dà senso alla
nostra vita, ciò che ci rende felici?
Coloro che difendono la validità di
una “banale tolleranza” ignorano
completamente che un vero dialogo
non significa rinunciare ai propri valori
o alla propria identità. Il vero dialogo,
al contrario di una tolleranza che
imbalsama le posizioni nel silenzio
della non-comunicazione, è un cammino
indispensabile di purificazione
e di arricchimento della propria fede:
uno stato di conversione permanente
stimolato dalla fede dell’altro, dalla
sua diversità rispettosa e dal fatto che
la Verità non si possiede ma ci si lascia
conquistare da essa».