01/12/2011
Negli ultimi anni, tenendo presente
la sua ampia diffusione, la Peer Education
sembra esser diventata di moda
tra gli operatori e i finanziatori dei
progetti sulla salute. Volendo essere
più precisi, la PE è diventato un “marchio”
capace di rendere (per lo meno
a parole) innovativo qualsiasi progetto
di promozione educativa e di prevenzione
del disagio. Il rischio che numerosi
programmi educativi siano automaticamente
(e forse troppo frettolosamente)
definiti come Peer Education,
allora, è dietro l’angolo.
A volte si ha il sospetto che la stessa
popolarità della PE sia frutto di un malinteso.
Da un lato, i ricercatori e gli
operatori sono a conoscenza della
complessità di questa metodologia
che implica un notevole investimento
culturale e pedagogico.
Dall’altro, invece,
si ha l’impressione che la PE venga
concepita piuttosto come pratica
di “risparmio” di tempo e di risorse
economiche e professionali.
Ai promotori, in ultima analisi, non
deve sfuggire il rischio che, in una società
come quella attuale sempre più
attenta all’efficacia e alla standardizzazione,
la Peer Education possa essere
confusa con un “modello di addestramento”.
Se è vero che la Peer Education
corrisponde e fa riferimento a criteri
e metodi precisi, lo stesso non possiamo
dire del peer educator, che in nessun
modo deve essere visto e concepito
come qualcuno cui omologarsi, un
modello standard da imitare.
La Peer Education, e ciò va ribadito fino
alla fine, nasce e cresce proprio
dentro il gruppo dei pari, riconoscendo
con forza che il piccolo gruppo rimane
il cardine della possibilità stessa
d’individuazione personale e di conseguenza
dello sviluppo del benessere
esistenziale.
Gianmaria Ottolini