Navi veleni, caso De Grazia: è svolta

La morte del capitano Natale De Grazia non avvenne per infarto, come affermava l'autopsia, ma per avvelenamento. Lo dice il perito della Commissione parlamentare d'inchiesta.

Le verità scomode del capitano De Grazia

02/01/2013
Una cisterma di rifiuti altamente inquinanti rinvenuto sulle coste somali dopo lo Tsunami del 2005. Fonte: Somalilandpress.com
Una cisterma di rifiuti altamente inquinanti rinvenuto sulle coste somali dopo lo Tsunami del 2005. Fonte: Somalilandpress.com

Natale De Grazia, oltre e prima che ufficiale di polizia giudiziaria, era il comandante della Capitaneria di porto di Reggio Calabria. Traffico marittimo, rotte, dogane e polizze di carico erano il suo pane quotidiano. Perciò era diventato la punta di diamante dell’inchiesta sulle “navi a perdere”.

Quel disgraziato 12 dicembre 1995 stava andando a La Spezia. Doveva reperire documentazione su alcune delle imbarcazioni affondate nel Mediterraneo. Partì con altri due agenti, Nicolò Moschitta e Rosario Francaviglia. Una spedizione importante: l’inchiesta stava facendo passi da gigante, il pool investigativo era vicino a trovare le prove sulla vera natura del carico della Rigel, una vecchia nave sparita nel nulla, nel settembre del 1987, di fronte a Capo Spartivento, in Calabria, che secondo la Procura di La Spezia – che aveva indagato a suo tempo – era stata affondata dolosamente per truffare le assicurazioni.

Ma le investigazioni di De Grazia e dei suoi collaboratori stavano appurando una storia diversa, emersa dalle rivelazioni di una fonte confidenziale che il 13 maggio 1995 – otto anni dopo i fatti – aveva messo a verbale, davanti agli agenti del nucleo investigativo della Forestale di Brescia, una lunga deposizione nella quale indicava che il carico di quella imbarcazione era costituito di scorie radioattive, da inabissare in mare.

Nei mesi successivi, il lavoro di De Grazia si fa febbrile: perquisizioni, consultazione di documenti nelle capitanerie, analisi delle rotte. Il raggiungimento della verità della Rigel sarebbe stata la prima conferma sul business delle “navi dei veleni”, decine di naufragi sospetti, di vecchie imbarcazioni con carichi ancora più sospetti. E un’enorme organizzazione criminale da individuare, capace di avvalersi di relazioni internazionali di altissimo livello con molti Paesi del Sud del mondo, ai quali far arrivare, in cambio di denaro, i carichi da interrare.

De Grazia aveva garantito ai magistrati risultati concreti in brevissimo tempo, perché il cerchio si stava chiudendo. Invece, lungo la strada per La Spezia, è bastata una cena. L’inchiesta ha agonizzato per un po’ ed è finita archiviata, anche per i trasferimenti dei magistrati Neri e Pace.

La notizia che il capitano di corvetta Natale De Grazia sia stato assassinato non solo esige che ora si faccia luce e verità su chi ha voluto la sua eliminazione e perché, ma richiede anche una riflessione da parte delle istituzioni del nostro Paese.

La stagione dei traffici, che ha caratterizzato la seconda metà degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, è un capitolo oscuro e tragico della nostra storia. L’Italia ha avuto la stagione delle bombe, quella degli anni di piombo e del terrorismo, ha avuto – e si sta indagando fra mille difficoltà proprio in questi mesi – la stagione della trattativa Stato-mafia.

Tra i misteri d’Italia spesso ci si dimentica di mettere la stagione dei traffici. Armi, rifiuti tossici, scorie radioattive. Su cui hanno lucrato colletti bianchi senza scrupoli, imprenditoria malata, mafia, faccendieri, ma anche uomini politici e pezzi delle istituzioni che hanno coperto le attività illecite. Un pugno di anni avvolti nel mistero. Inchieste giudiziarie bloccate, depistate, arenate per volere di questi stessi apparati dello Stato che agiscono nell’ombra e che impediscono sistematicamente l’accertamento della verità.

C’è una lunga scia di sangue che in qualche modo s'intreccia con quelle attività illecite. Nomi noti e meno noti, da giornalisti come Mauro Rostagno, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a uomini del servizio segreto militare come Vincenzo Licausi; da militari dei corpi d’elite come Marco Mandolini ad agenti di polizia giudiziaria come, appunto, Natale De Grazia. Ma anche centinaia, forse migliaia di vittime delle guerre, come quella somala, che abbiamo illecitamente sostenuto, o dell’inquinamento provocato dalle sostanze tossiche e radioattive scaricate a terra e in mare.

Basta andare in Internet e sfogliare un po’ di pagine di tanti siti somali per vedere quante segnalazioni ci sono di malformazioni, tumori, problemi medico-sanitari incompatibili con le patologie di un Paese a clima tropicale arido. Fatti segnalati ripetutamente da medici della cooperazione, da monitoraggi delle Nazioni Unite, dallo stesso personale sanitario del Paese africano. La Somalia è il caso più eclatante, ma non è il solo. Non è detto che sia tutta opera italiana, ma di certo ne abbiamo almeno una parte di responsabilità.

L’Africa, la Somalia, l’America Latina, l’Est europeo sono lontani. Forse alle nostre istituzioni importa poco di fare chiarezza su quello che abbiamo combinato laggiù. Ma almeno per rendere giustizia alle famiglie italiane colpite dai lutti, almeno per renderne ragione all’opinione pubblica italiana, il nostro Paese deve affrontare la questione, deve fare luce su quei fatti e sui responsabili.

Si presenta una nuova occasione per farlo: è sconvolgente che un uomo delle istituzioni come De Grazia sia stato ucciso nell’esercizio delle sue funzioni di investigatore, per tappargli la bocca. Si scoperchi questa maleodorante pentola del malaffare, che racchiude verità scomode.

Luciano Scalettari
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