La vita oltre la Shoah

Le testimonianze e i ricordi di chi è non è stato sconfitto dall'Olocausto, mentre al Parlamento europeo approda l'appello per una Giornata dei giusti.

Denis Avey: «Ho voluto vedere con i miei occhi»

27/01/2012
Denis Avey, autore di "Ero il numero 220543".
Denis Avey, autore di "Ero il numero 220543".

Nel male eretto a sistema di vita e di governo, nella fatale Auschwitz, Denis Avey ci è entrato volontariamente, spinto dal desiderio di vedere con i propri occhi le ciminiere dei forni crematori, i cadaveri ammassati e le condizioni terribili in cui si trovavano gli ebrei rinchiusi come prigionieri. È il 1944. Avey, dopo essere stato catturato dai tedeschi, finisce in Polonia, nel campo E715, dove di giorno lavora come operaio in una fabbrica insieme ai detenuti del campo vicino, quello di Auschwitz. Incuriosito dai loro racconti, con uno stratagemma riesce ad entrare nel lager scambiandosi di posto con Hans, un deportato ebreo olandese, «uno dei rari di cui mi fidavo». Da quell'esperienza, messa ora in dubbio da molti storici che la giudicano troppo inverosimile, è nato Auschwitz. Ero il numero 220543 (Newton Compton), scritto insieme al giornalista della BBC Rob Broomby, che per primo nel 2009 ha raccolto la storia di Denis in un'intervista esclusiva.

Signor Avey, la sua testimonianza ha permesso di gettare una luce inedita su uno dei massacri più terribili della storia dell'umanità. Chi le ha dato il coraggio di raccontare l'orrore che ha vissuto?
«La storia è saltata fuori per caso. Mi era stato chiesto da alcuni reduci di guerra se avessi potuto sostenerli in un appello alla radio della BBC a Derby. Mi chiesero: “Cosa hai fatto durante la guerra?”. Prima di allora non avevo mai detto una parola a nessuno, nemmeno a mia madre, riguardo al mio periodo ad Auschwitz. Tutto improvvisamente iniziò a uscir fuori dalla mia testa. Non mandarono in onda due programmi per continuare ad ascoltarmi e da lì, Rob Broomby, un giornalista della BBC, si è messo in contatto perché voleva che scrivessi la storia della mia vita. Ci siamo incontrati diverse volte per tantissime settimane e abbiamo trascorso ore discutendo della mia storia e delle esperienze che avevo avuto».

Perché ha deciso di offrire la sua testimonianza a quasi settant'anni di distanza? «Pochissime persone hanno parlato dei loro problemi durante la guerra, e in ogni caso la gente non voleva saperne troppo. Quando dopo il conflitto sono tornato alla vita militare mi chiesero un report sull’attività relativa ai prigionieri di guerra. Iniziai parlando di Auschwitz e notai subito la “sindrome da occhi vitrei”: nessuno, cioè, aveva esperienza di quegli orribili campi e ovviamente tutto era stato così bestiale e incredibile che mi accorsi subito che non mi credevano. Uscii dall’ufficio e non ne parlai più sino all’intervista alla BBC. In seguito, ho parlato con alcune persone e anche loro non avevano mai parlato della loro prigionia ad Auschwitz. Era stata un'esperienza così tremenda e orribile che si considerava impossibile, o comunque poco credibile, che qualcuno l'avesse provata. Oggi tutti ormai conoscono la storia dell'Olocausto, ma allora nessuno ne parlava».

Per lei, che ha visto con i suoi occhi quel che ad accadeva ad Auschwitz, raccontare è un dovere o solo un tormento che le fa rivivere quelle atrocità?
«Ho voluto che i giovani sapessero delle cose terribili che sono successe in quel lager. In realtà, odiavo parlare dei ricordi di Auschwitz ma volevo anche che i giovani ne fossero consapevoli in modo che se qualcosa di simile succeda in futuro nella loro vita siano in grado di reagire e fare qualcosa. Credo che raccontare la mia vicenda sia stato come passare il testimone alle nuove generazioni affinché possano assicurarsi che tutto questo non accada di nuovo». 

Una cerimonia di commemorazione al Campo di concentramento di Buchenwald (foto Corbis).
Una cerimonia di commemorazione al Campo di concentramento di Buchenwald (foto Corbis).

Nella storia ci sono stati, e continuano ad esserci, genocidi terribili. Perché la Shoah è considerato un evento unico, diverso da tutti gli altri?
«Per quello che accadeva nei campi, qualcosa che ha rischiato di distruggere la naturale concezione umana di vita. È stato totalmente incredibile che delle persone potessero reagire in quel modo. La bestialità alla quale ho assistito ogni giorno superava qualsiasi immaginazione».

C'è il rischio che oggi in Europa l'antisemitismo di alcuni gruppi possa sfociare in nuovi atti di violenza e razzismo verso il popolo ebraico?
«No, non lo ritengo possibile, ma credo che il genocidio sia purtroppo un pericolo sempre in agguato. La crudeltà di un uomo nei confronti di un altro uomo non è ancora completamente riconosciuta, è un nuovo concetto che ho sperimentato, da testimone, ad Auschwitz».

Il suo libro è diventato in pochi mesi un bestseller mondiale. Eppure, molti storici britannici ed ex prigionieri di guerra non credono al suo racconto perché mancherebbero i testimoni. È dispiaciuto per questo?
«È una bella domanda. No, non mi dà fastidio, l’unica cosa che mi infastidisce è che non prendono in considerazione le mie parole per quelle che sono. Non ho raccontato la mia storia volontariamente, mi è stato chiesto. L’azione è il modo migliore per attaccare. Coloro che hanno sollevato dubbi nei miei confronti hanno guardato alla mia storia soltanto con gli occhi dell’epoca di pace di oggi. Quando vidi questa bestialità non mi sono costruito un meccanismo di difesa, semplicemente mi ha fatto molto arrabbiare e volevo fare qualcosa a riguardo. Sapevo benissimo che se l'avessi fatto sarei stato ucciso da un proiettile. Ma è importante ricordare che tutte le persone, per diversi motivi, di fronte a certe situazioni reagiscono in maniera differente e poi agiscono di conseguenza. Auschwitz è stato orrendo ed io ero determinato a fare qualcosa a proposito».

L'ha amareggiata il rifiuto dello Yad Vashem, il sacrario delle vittime della Shoah, di nominarla "Giusto fra le Nazioni" per mancanza di conferme al suo racconto? «No. Loro sostengono che la mia esperienza non è provata. L’unica prova che potrei portare è stato quando ho preso le sigarette da mia madre. Potevamo spedire solo una lettera al mese e diedi a mia mamma l’indirizzo di Susanna Lobethal, la sorella di Ernst, un giovane ebreo di origine polacca che avevo conosciuto. Volevo far sapere a quella donna che suo fratello era vivo e che poteva spedirmi le sigarette per lui. Le sigarette erano meravigliose: potevi scambiarle con il cibo e valevano una fortuna. Dandole ad Ernst potevo trovarmi in grave pericolo con le SS. Ernst, a sua volta, scambiò le sue bionde con un paio di scarpe nuovo e del cibo. Pensavo che durante la “marcia della morte” non ce l'avesse fatta ma è sopravvissuto e ha avuto l’opportunità di andare in America. L’ho scoperto vedendo un Dvd sulla Shoah Foundation, nel quale, in un'intervista, Ernst diceva che quelle sigarette e il cibo che gli avevo dato lo aiutarono a salvarsi. Alla fine, tornato a casa, presi una mappa e guardai il nostro cammino da Auschwitz a Bruxelles, una distanza di 900 miglia percorsa in situazioni disperate, costretti spesso a stenderci nella neve di notte. L’animo è un grandissimo fattore, così come l’adrenalina, e questi, con la forza ottenuta dalle sigarette, sono ciò che hanno aiutato Ernst a sopravvivere».

Antonio Sanfrancesco

A cura di Paolo Perazzolo
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