26/01/2012
Il colonnello-scrittore Roberto Riccardi.
Sissel Vogelmann era una meraviglia di bambina. Bella, con gli occhi azzurri e i riccioloni biondi un po’ ribelli. Allegra e buona, calma e generosa. È straziante pensarla mentre parte, il 30 gennaio 1944, dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano diretta ad Auschwitz; immaginarla per una settimana sul vagone piombato senza acqua né cibo né luce; saperla morta nella camera a gas con la mamma, Anna Disegni, il giorno stesso dell’arrivo nel campo di sterminio, il 6 febbraio 1944. Aveva solo 8 anni. Il padre Schulim sopravvisse alla detenzione nazista e, finita la guerra, tornò nella sua città, Firenze. Era stato l’unico ebreo catturato in Italia a salvarsi grazie a Oskar Schindler, lo straordinario personaggio che ha ispirato il film giustamente famoso di Steven Spielberg. Schulim Vogelmann si ricreò una famiglia, ma al figlio Daniel nato dal secondo matrimonio mancò fin dall’infanzia quella sorellina, Sissel, che non aveva mai conosciuto.
Daniel Vogelmann è l’editore della casa editrice Giuntina, presso la quale è appena uscito il libro La foto sulla spiaggia, un romanzo commovente e dolce che racconta l’adolescenza e la giovinezza che Sissel (che nella fantasia prende il nome di Alba) avrebbe potuto vivere se la vita non le fosse stata rubata. Il libro è dedicato esplicitamente a Sissel Vogelmann, ma anche «a tutti i bambini, e non solo, che sono morti ad Auschwitz», spiega l’autore Roberto Riccardi. Colonnello dei Carabinieri e direttore della rivista dell’Arma Il Carabiniere, Riccardi ha già pubblicato il giallo Legame di sangue (Mondadori) e Sono stato un numero. Albero Sed racconta, nel quale ha raccolto le memorie terribili e toccanti di un sopravvissuto ad Auschwitz.
Colonnello Riccardi, l’Alba del suo romanzo sarebbe potuta essere Sissel, se non avesse incrociato il nazismo…
«Ho immaginato una bambina di quegli anni con i sentimenti che si avevano allora, con i discorsi che si potevano fare, con la purezza e la semplicità che contraddistinguevano quel tempo. Credo che fosse possibile per lei una giovinezza come quella che racconto: Sissel era certamente una bambina che aveva quei sentimenti, perché questo emergeva dai racconti di suo padre. Ci sono anche alcune sue letterine molto belle, come una che per esempio aveva mandato alla nonna per ringraziarla di un berretto che le teneva caldo d’inverno. Era una bambina sempre sorridente, allegra, buona. La storia di Alba è un’evoluzione che mi è assolutamente sembrata poter appartenere a Sissel».
Alba è una ragazza ideale, ma sa essere anche anticonformista.
«È come se ci fosse in lei un embrione che la fa ragionare anche con parametri diversi da quelli che le sono stati dati: una volontà di ricerca, un bisogno di sapere e capire di più. Sì, sa essere anche anticonformista, nell’amicizia e nell’amore. Nell’amicizia, con una ragazza il cui padre ha avuto un dissesto economico: gli altri la allontanano, ma ad Alba non importa. E nell’amore: incontra un ragazzo con il quale riuscirà a costruire una storia profonda, anche se lui non appartiene al suo medesimo ceto sociale e anche se questo amore magari va contro regole più o meno scritte del suo ambiente».
Perché ha immaginato il futuro di una bambina morta a 8 anni?
«Avevo il desiderio di raccontare la storia di Sissel, di farle un omaggio. Mi è sembrato assurdo che una vita potesse finire così in fretta senza neanche svilupparsi, senza esprimere tutte le potenzialità che aveva. Il momento in cui le è stata data la morte è, appunto, un momento, ma è come se l’avessero uccisa una volta per ognuno dei giorni che avrebbe potuto vivere. Ogni giorno le è stato negato. Sissel era del ’35, mia madre è del ’33 e io l’ho vicina da una vita, c’era evidentemente prima di me e ha ancora un percorso davanti. Per Sissel, invece, parliamo di un filo che è stato reciso nel lontano ’44».
La copertina del libro di Riccardi, con Sissel Vogelmann a 4 anni.
Chi è per lei Sissel, che in copertina appare a 4 anni, in una
foto sulla spiaggia?
«Poteva essere mia madre, per esempio: per me è
immediato pensare a lei in quei termini. Nello stesso tempo, mi fa
pensare alla mia figlia più piccola, che ha 11 anni ed è più vicina per
età a quella che aveva Sissel quando è morta. L’immedesimazione mia,
invece, è con il padre di Sissel: penso a come mi sarei sentito se mi
fossi trovato su quel treno, e poi all’arrivo, in una condizione di
impotenza assoluta, senza poter fare proprio nulla per aiutarla, fino al
momento straziante in cui l’ha dovuta lasciare. Immagino che l’abbia
affidata alla moglie. Penso a un padre, una madre e una bambina che
arrivano ad Auschwitz dopo un viaggio durante il quale non c’era da
mangiare né da bere, non c’era aria, non c’era luce. M’immagino questa
bambina sicuramente triste, che piangeva e chiedeva mille cose, e il
padre e la madre non potevano dargliele. La mia identificazione è anche
questa: penso a tutti i genitori che sono arrivati lì con i loro bambini
senza poter fare nulla per proteggerli e salvarli, che se li sono visti
strappare dalle mani e in quel momento sono stati uccisi anche loro. Il
padre di Sissel è tornato, ma l’hanno ucciso mille volte nel momento in
cui gli hanno strappato la moglie e la figlia senza che lui potesse
fare nulla per evitarlo».
Nel libro, la storia di fantasia e
quella realistica si alternano e man mano si avvicinano.
«Sì. Intanto,
volevo che si avvicinassero il romanzo e quello che effettivamente era
avvenuto: gli elementi di similitudine sono rintracciabili nel nucleo
familiare, nella città di provenienza che è Firenze, nel fatto che poi
c’è una seconda famiglia per il padre, con un figlio piccolo che è
appunto Daniel Vogelmann. Nel parlare della realtà di Auschwitz, per
quanto riguarda i capitoli che sono ambientati lì e raccontano la vita
dei prigionieri, ho attinto alla possibilità avuta di incontrare dei
sopravvissuti e parlare a lungo con loro. Potevo avere elementi di
conoscenza su come si svolgeva la vita quotidiana nel lager, su come
avveniva la distribuzione del vitto, sull’organizzazione del lavoro e
così via. Tutti quegli elementi sono di grande realismo perché vicini a
ciò che è effettivamente avvenuto a tanti prigionieri di Auschwitz: sono
tutti episodi veri o verosimili».
“La foto sulla spiaggia” è
il suo secondo libro sulla Shoah. Da dove nasce questo interesse?
«Sicuramente dall’incontro con Alberto Sed, un sopravvissuto del quale
ho raccontato la vita nel mio primo libro. Quell’incontro mi ha segnato
per sempre ed è parte di me: devo esprimere ciò che provo, rispetto a
questo fatto storico avvenuto prima della mia nascita. Io non sono parte
diretta, e non credo nei testimoni di seconda generazione. Però, dopo
l’incontro con Alberto Sed, per me quello non è più un pezzo di storia
dell’umanità, ma un uomo in carne e ossa che era lì e al quale voglio
bene».
Rosanna Biffi
A cura di Paolo Perazzolo