30/04/2010
Andrea Zorzi, grande ex della Nazionale italiana di pallavolo.
Sei maratone su sette, dalla seconda edizione fino a oggi. Andrea Zorzi, per tutti “Zorro”, campione mondiale di pallavolo, è il veterano della Maratona Betlemme-Gerusalemme e uno dei “trascinatori” carismatici della grande squadra dei pellegrini.
Andrea Zorzi, come hai iniziato questa esperienza?
“Un giorno, sei anni fa, mi hanno chiamato dal Centro sportivo italiano per chiedermi di partecipare come tedoforo a una maratona in Terra Santa. Io ho pensato che era una bella cosa, anche se di maratone non ne avevo mai fatte. Così ho cominciato ad allenarmi per correre dieci chilometri e poi sono partito. Era la mia prima volta in Terra Santa ed è stata una grande emozione. Il primo anno l’ho vissuto più da pellegrino. Da lì è poi iniziata una collaborazione che mi ha riportato qui altre volte, in situazioni più o meno fluide e complicate”.
Parli di situazioni complicate: a quali ti riferisci in particolare?
“L’anno scorso, con la guerra di Gaza, gestire l’organizzazione e arrivare fino in fondo è stata dura. E’ stata una delle edizioni più cariche di tensione. Quando è nata, la maratona aveva lo scopo di mostrare, in un momento molto difficile, che la Terra Santa non era pericolosa. Dopo la seconda intifada il numero dei pellegrini era crollato, la presenza di una Maratona dimostrava che si poteva andare in quei luoghi senza timori. Poi, si è cominciato a sperare che un evento sportivo potesse essere un’opportunità per riavvicinare due popoli distanti: da questo punto di vista siamo ancora sul chi va là. Vale la pena continuare a organizzarla? Io dico di sì. Non sarà decisiva in un processo di pace, ma in sette anni ha portato qui tantissima gente. È giusto farla, ma senza grandi illusioni o idealismi”.
Sulla base della tua lunga esperienza di atleta, quanto aiuta lo sport a superare le barriere i conflitti?
“Credo che lo sport, con la sua fisicità e la semplicità delle regole, sia perfetto per imparare a crescere. A volte l’eccessivo agonismo lo rende un cattivo maestro. Ma sarebbe sbagliato eliminare la competizione. Quando si è in campo bisogna fare di tutto per vincere, ma anche imparare a sopportare la sconfitta e gestire la vittoria”.
Dossier a cura di Giulia Cerqueti